Giulia Montorzi continua a raccontarci la sua quarantena, in prima linea.

Il numero dei malati sta diminuendo, da giorni.
In ospedale abbiamo l’impatto visivo e tangibile di questa affermazione.

All’inizio dello tsunami c’era il reparto di malattie infettive.

Poi, allarmati dalle notizie che arrivavano dal Nord Italia, si sono aggiunti altri tre settori, ognuno con un ruolo diverso: la bolla, i ventilati e i positivi stabili (o quasi).

Allo stesso modo, noi infettivologi – coinvolti sin dall’inizio, quando il SarsCov2 era solo un lontano virus esotico – siamo stati affiancati da pneumologi, medici di pronto soccorso, internisti, neurologi, oncologi, reumatologi, chirurghi e urologi.

Ognuno di loro pronto a sacrificare la propria specializzazione, tutti a servizio di un bene più grande: la formazione di un unico grande team per sconfiggere il Covid.

E adesso, da alcuni giorni, si sta diffondendo un’atmosfera da ultimi giorni di scuola: perché i numeri scendono.

È vero, i reparti di stanno svuotando senza che nuovi casi arrivino.

Ognuno di noi ha ripreso in mano, quasi senza accorgersene, i propri pazienti. Quelli di prima, altri malati non covid che negli assurde settimane trascorse sembravano scomparsi, e che ora cominciano a riaffacciarsi nelle corsie.

Lunedì ho ricominciato a mettere il fonendoscopio attorno al collo all’arrivo in ospedale: non succedeva da quasi due mesi, quando lo avevo abbandonato nell’armadietto fino a data da destinarsi.

Le cose stanno tornando alla normalità, gli spazi in ospedale tornano alla normalità, i settori “sequestrati” ritornano a svolgere le loro funzioni tradizionali.

Non tutti però, perché rimane l’incertezza di quello che succederà e il timore che, come ogni infezione virale, ci saranno nei prossimi mesi momenti di recrudescenza, più o meno, e questo dipenderà dal virus e anche da noi: dalle regole che ci daremo e dalle politiche che attueremo.

È il pericolo della stanchezza da ultimi giorni di scuola, quando si sa che non è ancora arrivato il momento di mollare, ma un po’ lo si inizia a fare.

Quando si inizia a sentire il sollievo misto alla paura, perché in fondo ancora non ce lo possiamo permettere, quando si salutano i compagni di avventura perché da domani saremo di nuovo in gruppi separati.

Paura, soddisfazione per il lavoro svolto, attesa per la ripartenza, quasi incredulità, come se fosse stato un incubo in cui siamo stati catapultati, centrifugati e velocemente scaraventati fuori. È surreale.

Però poi oggi arriva la notizia che ti ricorda quanto, effettivamente, sia stato e sia ancora reale.

Il nostro primo paziente, entrato quando ancora c’erano solo le stanze del reparto di malattie infettive, che ho visitato in piedi, che mi raccontava del suo lavoro e dello sport tra un colpo di tosse e l’altro, mentre lo distraevo da una dolorosa emo gas, e che è peggiorato così velocemente, in un modo che fino ad allora non avevo mai visto.

Il primo di cui ho chiamato la moglie per dirle che lo avremmo sedato e intubato per cercare di dargli sollievo dallo sforzo respiratorio.

Era il 6 marzo.

Dopo un mese e mezzo di terapia intensiva non ce l’ha fatta. Aveva 58 anni, era in buona salute, non presentava patologie preesistenti al contagio, amava il proprio lavoro e vedere le partite di basket dei suoi figli.

L’atmosfera di fine scuola è già finita.

Non è stato un incubo, è stato tutto molto vero. E abbiamo il dovere di ricordarcelo per affrontare con intelligenza i mesi che verranno.

(Le pagine precedenti le trovate qui, qui, qui e qui).

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