Prosegue il racconto di Giulia Montorzi dall’ospedale di Prato (qui e qui le prime due puntate).

«Un momento molto delicato è quando rimandiamo a casa persone che clinicamente stanno bene e possono essere dimesse ma, di fatto, sono ancora positive, e di cui non si conosce la situazione sierologica dei conviventi.

Queste persone continuano l’isolamento in una stanza dedicata della loro abitazione, in cui deve essere garantito un buon ricircolo d’aria, il cibo viene consegnato in contenitori preferibilmente monouso e l’ideale sarebbe che avessero un bagno riservato.

Quando questo non è possibile, i malati devono disinfettare accuratamente tutte le superfici degli spazi comuni con cui entrano in contatto.

Tutte le mattine facciamo il giro di telefonate dei familiari dei pazienti, e ci siamo accorti che grazie all’impostazione storicamente patriarcale della nostra società, ci ritroviamo pieni di uomini anziani che non sanno pulire un bagno, e di mogli preoccupate dal rientro del proprio convivente Covid positivo di cui dovranno prendersi cura.

Può sembrare una battuta, e invece è un problema igienico-sanitario serio: non si dovrebbe mandare a casa chi non è completamente autosufficiente, perché questo espone ad un rischio grande i congiunti del malato. E va contro il principio di difesa dai focolai che è la stella polare di un infettivologo.

Così come in altre zone, nel pratese è stata disposta una struttura intermedia in un vecchio ospedale: per i pazienti in miglioramento che hanno bisogno ancora di cure minime, o per chi vive situazioni di grave disagio sociale.

Abbiamo alberghi che hanno gentilmente messo le proprie camere disposizione. Ma rimane tutt’ora il problema della politica sanitaria di gestione del territorio e molte famiglie lamentano di essere a casa, sintomatiche o con familiari sintomatici e/o ricoverati, senza che siano controllate con tampone, con la sensazione di essere abbandonate a loro stesse.

Il grande assente è la conoscenza profonda della diffusione del virus sul territorio, e per parlare di riapertura serve un piano preciso per isolare i malati e tutelare tutti gli altri.

Conoscere per deliberare.

Conoscere la reale situazione territoriale, altrimenti il rischio è di ripetere gli errori del passato. È stato un errore non creare tempestivamente zone rosse che si sono rivelate poi necessarie, sarà un errore se non riusciremo a capire e prevedere la situazione dei nuclei familiari per identificare chi potrà uscire prima e chi dopo.

Ora che l’emergenza sta iniziando a rallentare e gli ospedali – in alcune zone – hanno ripreso a respirare, dovremmo dedicarci all’organizzazione territoriale per riprodurre nella società quello che i medici attuano in ospedale: identificare, controllare per prossimità, isolare. Creare una bolla che tenga al sicuro ci non ha contratto il virus.
Per fare questo, è indispensabile una politica di sanità pubblica massiva che una pandemia di questo tipo richiede e che, ad oggi, manca completamente.

È il momento della politica: quella della serietà, per entrare nella “Fase 2” in modo intelligente e organizzato, pensando in prospettiva.

Arginata l’emergenza, occorre strutturare delle misure che rendano la “Fase 2” un momento di costruzione e non di rischio perché, nel momento in cui dovremo far tornare alla vita le persone, dobbiamo sapere con certezza chi è portatore e in quanti hanno sviluppato anticorpi, altrimenti tutti gli sforzi fatti fino ad oggi andranno colpevolmente perduti».

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