Perché proprio a Verona, questo congresso mondiale delle famiglie? Non c’è proprio niente di cui stupirsi.

La risposta è molteplice.

Perché Verona è la città della destra, quella nostalgica e non solo. Perché è la città della Lega (Tosi, poi moderatosi, iniziò con il leone di San Marco che mangia il terrone, rigorosamente in dialetto), perché è la città del conservatorismo cattolico, potentissimo sotto ogni profilo. Nelle province qui intorno fortissima è stata la crociata anti-gender, basata anch’essa su una mistificazione, come quasi tutto ciò di cui stiamo parlando.

Perché Verona è la città del ministro Fontana, che abbiamo visto essere il collegamento dei vari pezzi che compongono il puzzle ultraconservatore. Vice di Salvini, lui in Europa ci andava, e tesseva relazioni internazionali, soprattutto verso l’Europa orientale.

Perché a Verona familiarizzano (sic) ambienti strettamente collegati tra loro, le sigle fasciste vietate dalla Costituzione, i sostenitori di una forma più o meno dichiarata di teocrazia, gli illiberali di ogni risma. Che sono legati tra loro anche dal punto di vista organizzativo.

Perché Verona è la città dove si muove, forte di notevole consenso, l’associazione «Verona ai veronesi», che sembra solo uno slogan triviale e invece sintetizza la quintessenza del «noi e loro». Bisogna essere «veronesi», chiaro?

Perché Verona è la città di un sindaco dai modi cortesi, che ha con sé tutte le cinquanta sfumature di nero, dai fascisti degli anni Settanta ai curvaioli dell’Hellas.

E perché Verona – e qui iniziano apparenti paradossi – è una città internazionale. Ed è la città universalmente nota per quel balcone (che qualcuno vorrebbe apparentare con quell’altro) che parla d’amore come poche altre cose al mondo. Del resto di amore si parla anche nella tre giorni dei tradizionalisti, benché ovviamente non si colga l’aspetto della «contestazione» che la leggenda che Shakespeare immortalò descrive in modo così drammatico (ma amore e morte fa troppo Freud, meglio lasciar perdere). L’amore del prossimo fine settimana è quello che dicono loro, non si ammettono eccezioni. Né interruzioni. Né «deviazioni».

Ed è la città con la concentrazione di turisti tra le più alte d’Italia e di Europa. Ed è la città del commercio e dell’esportazione. Delle fiere. È anche una città parecchio secolarizzata. Dove non è certo la frugalità a imporsi.

È una città globale, ed è giusto che le forze che reagiscono ai flussi globali con gli strumenti più primitivi e retrogradi si ritrovino qui. In casa e insieme in trasferta. Una città che se si chiudesse davvero ai soli veronesi, non esisterebbe più. Se interrompesse i flussi che l’attraversano, non sarebbe più quella che conosciamo. Se voltasse le spalle al mondo, finirebbe per impoverirsi e insomma perdersi.

C’è insomma del genius loci, in tutto questo, ma anche una potente contraddizione che chi intende opporsi a questo movimento deve cogliere e rilanciare. In una sfida che non riguarda solo queste tre giornate, né solo il nostro Paese, ma la ‘piega’ che stanno prendendo un po’ tutte le questioni, sotto il profilo prima di tutto culturale (si direbbe, antropologico), a livello europeo e mondiale. E i rischi di questa deriva, che si manifesta in molti modi ed è inserita in un disegno strategico e dichiarato, possono essere molto alti. Fatali, proprio.

[Segue]

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