Marianna Aprile ha commentato la nostra situazione con il tweet definitivo: «Ho finito Netflix». A quanto pare, lei l’ha finita davvero.

A furia di vedere serie tv in spagnolo mi pare di essere stato un mese a Madrid o a Buenos Aires. E, per contrappasso, il palinsesto offre vicende carcerarie, reclusioni, tentativi di fuga. Più che una tv, uno specchio.

E allora torniamo al cinema, che chissà quando ci ricapiterà.

«Non so cosa dirvi davvero». Inizia così Al Pacino. «O risorgiamo, come squadra, o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, fino alla disfatta».

Ad allenarci però non c’è Al Pacino. C’è una classe dirigente che ha grossi problemi con la logica, con la coerenza, con la ragionevolezza. Succede in Europa, con i gruppi politici in ordine sparso, come se non fosse urgente e necessario tutto quello di cui abbiamo bisogno. E succede in Lombardia, soprattutto. Si procede a strappi, a eccessi, a slogan. È tutta un’inversione, una sottovalutazione, un dirsi estranei a qualsiasi responsabilità. Leggete questo editoriale e fermateli.

«Certo che ho commesso tutti gli errori che un uomo di mezza età possa fare».

Nessuno che lo dica. Mai. Anzi, è un continuo, incredibile celebrare se stessi. Gobba, quale gobba? C’è un sorriso eterno e beato e beota che accompagna ogni dichiarazione. Una risata alla Joker a favore di telecamera.

«Mezzo passo fatto in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate. Mezzo secondo o troppo veloci o troppo lenti e voi mancate la presa».

Non hanno chiuso a Bergamo nei giorni decisivi a cavallo di febbraio e di marzo, non hanno voluto prendere sul serio l’invito a chiudere davvero nelle settimane centrali di marzo, hanno blandito gli interessi del più forte e insieme del più miope, perché a voler tenere aperto si è solo allungato questo limbo senza fine. Non hanno protetto le strutture sanitarie, hanno commesso errori clamorosi e dolorosi con le Rsa. Trovare un tampone sembra impossibile, nella Regione delle «eccellenze», motore d’Europa, plaga tra le più avanzate dell’orbe terracqueo. Hanno rivendicato per sé poteri e competenze e non li hanno saputi esercitare. Hanno lasciato milioni di persone nell’incertezza. E ora invitano gli incerti a uscire, come se fosse normale, senza garanzie, senza protezioni. Gli stessi che dicevano di non poter ordinare la chiusura, ora ordinano la riapertura.

«Per un centimetro. Quando avremo a sommare tutti quei centimetri, il totale farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta».

Non c’è Al Pacino e non c’è nemmeno Maurizio Sarri, per dire, con il suo amore per le statistiche. I dati sono grezzi, non sono spiegati, non c’è proporzione tra le misure e i risultati. Settimane a parlare di rider e di persone per la strada quando con tutta evidenza i problemi erano da tutt’altra parte. Alla fine in molte località della Lombardia è successo quello che è stato rimproverato a Johnson, si sono contagiati tutti e abbiamo perso i più fragili, i più anziani, i più deboli. I dati parlano di un dato altissimo di nuovi positivi, anche nelle ultime ore, concentrati in una regione, soprattutto: sì, proprio quella. Eppure ora si parla di lavorare a ciclo continuo, sette giorni su sette, tutti quanti. Come se niente fosse.

Tutto questo compromette e comprometterà la ripresa di un intero paese. Sia per la tradizionale forza della Lombardia, sia per la sua attuale debolezza. È un federalismo alla rovescia: ciò che non si decide e non si sa governare a Milano, si ripercuote sulla vita quotidiana di intere regioni, distanti centinaia di chilometri e migliaia di contagi.

È una questione nazionale. L’unica cosa che ci si può augurare, ora, è che Governo e Regione decidano insieme e si concentrino sui focolai e sugli strumenti di cui abbiamo bisogno, a cominciare dai cazzo di tamponi. Spegnendo le telecamere, una buona volta. Ah, per chi non lo avesse ancora capito, non è una campagna elettorale: ditelo al lombardo con la felpa che si comporta come sempre, come se il virus non ci fosse, come se fosse un gioco. Il suo.

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