Annoiati dalla noia e dalla noia di doverne parlare, siamo arrivati a sempredì. Vivendo sempre la stessa giornata, raccontiamo la stessa giornata. Mille e una notte? Una notte soltanto.

Nina è quarantenergica: ha accumulato una tensione che potrebbe illuminare la casa. I maledettissimi «Me contro te» hanno sostituito l’ipnosi.

Anche il mondo dell’informazione gira intorno a un palo. E dopo secoli di grafici conferenze stampa dichiarazioni dirette e fake, appurato che le mascherine servono eccome (ziovirus!), la domanda sorge spontanea: che cosa te ne fai, esattamente, dell’app del contagio e dell’immunità se poi non ti puoi far fare un tampone?

Ancora faticano ad accedervi in troppe città gli stessi operatori sanitari. Medici e infermieri che devono inseguire un tampone per giorni e poi pagarlo e avere comunque l’esito dopo giorni e giorni. Una vergogna assurda. E un azzardo per la salute loro e, quindi, di tutti. Perché i medici diventano paradossi viventi che rischiano di contagiare proprio chi vorrebbero curare.

Lo stesso vale, subito dopo, per i cittadini. Ci manca solo il tampone dell’amico degli amici e che la fase due sia fatta a strati, a caste. Che di disuguaglianze e di guasti ne abbiamo già fin troppi.

Abbiamo parlato del modello Crisanti, altri hanno scelto il modello crisantemi (e delle loro responsabilità parleremo eccome, perché anche questo refrain per cui “non è il caso di fare polemica” è scaduto e ha anche un po’ rotto i coglioni). Oltre ai nomi e ai cognomi, facciamo i tamponi.

E allora pensiamo a postazioni mobili per fare tamponi, soprattutto nelle zone più a rischio (ce ne sono ancora parecchie) e a strumenti e macchine utili per ‘processarli’ alla svelta. Lo fanno in Corea del Sud con la formula della cosiddetta “cabina del telefono” (chi lo avrebbe mai detto che sarebbero tornate in auge?), lo fanno a Varese – un po’ meno esotica – quelli della Croce Rossa. Dice anche a Piacenza.

Un gazebo, un équipe medica, e via. Come quando si fanno le primarie, scherzava un amico: le tamponarie.

E cerchiamo di farlo prima di riaprire tutto. Non vorrei che questi due mesi non ci avessero insegnato niente.

Dopo due mesi pretendiamo informazioni più precise e dettagliate, possibilmente univoche, da parte di tutte le mascherine del nostro teatro dell’arte. La tecnologia, il più possibile rispettosa della privacy. Una soluzione drastica agli incredibili problemi burocratici che ancora ci attanagliano (per cui spero non serva un’autocertificazione). I servizi alla persona, infine, e prima di tutto.

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