E così non si riapre spalancando ma si socchiude, diciamo così. Nelle regioni, anche quelle più esposte, è tutto un fiorire di nuove delibere, ordinanze, diktat. Grida manzoniane, a volte, azzeccagarbugliate, aggiungeremmo, smentiscono le precedenti e a volte anche se stesse. È tutto molto sperimentale, in alcuni casi letteralmente azzardato. A volte paradossale, se è vero che ciò accade anche dove il virus cresce in modo esponenziale.

Paradossi ce n’è a secchi. Prendete Sanders, che si ritira dalla corsa alla candidatura democratica nel momento in cui le sue denunce e le sue battaglie si fanno ancora più urgenti e concrete. Prendete gli ultrà della destra che si era spinta nel deep liberismo che chiedono interventi statali ed europei a bomba. E potremmo continuare: chi ha devastato la sanità pubblica chiede investimenti per la sanità pubblica, come se non fosse la stessa persona a dirlo. Disturbo politico-narcisistico della personalità, come gli amministratori più incapaci che sono, guarda un po’, quelli che si celebrano di più.

Ora, al di là di tutto, c’è bisogno di portare fuori il Keynes. Insieme a un sistema di garanzie perché vi sia concorrenza e lealtà, in una parola: concorrenza leale. L’aggiunta di limpido liberalismo è necessaria, in un mercato, il nostro, opaco e condizionatissimo. Così come sono necessari pochi criteri, chiari e indiscutibili, per evitare che i soldi finiscano alle persone sbagliate o si concentrino, come sempre, in pochi e definiti luoghi. Gli stessi, più o meno da sempre.

Mentre la task force pensa alla “fase due”, insomma, vale la pena di portarsi avanti con il lavoro e pensare alla “fase tre“. Investimenti. Strategie. Programmazione. E anche progressività (che progredisca, però) e una tassazione che si sposti, finalmente, dal lavoro alla rendita. Ricordandoci che il virus è tutt’altro che flat, non colpisce tutti nello stesso modo. E come per le patologie, anche le sue conseguenze in campo sociale stermineranno i più deboli, indifesi e precari.

Non si può, né si deve tornare a prima. Bisogna tornare a dopo.

Scrive Michael J. Sandel sul New York Times («Are We All in This Together?»).

«Dovremmo, ad esempio, valutare un reddito minimo garantito per assicurarci che i lavoratori possano guadagnare a sufficienza per sostenere con prosperità le proprie famiglie? Dovremmo rafforzare la dignità del lavoro spostando il carico fiscale dalle tasse sul lavoro a quelle sulle transazioni finanziarie, sui patrimoni e sulla CO2? Dovremmo rivedere la politica attuale di tassare i redditi da lavoro a tassi più alti delle rendite da capitale? Dovremmo incoraggiare la produzione nel nostro paese di determinati beni – a cominciare dalle maschere chirurgiche, dai materiali sanitari e dai farmaci – invece di promuovere la delocalizzazione in paesi dove la manodopera è a basso costo?

Anche quando si affievoliscono, le pandemie e le altre grandi crisi molto di rado lasciano le condizioni sociali ed economiche come erano prima. Sta a noi decidere quale sarà l’eredità di questo episodio straziante. La nostra migliore speranza è approfittare di questo accenno di solidarietà legato al momento per ridisegnare il discorso pubblico, per rendere il dibattito politico più moralmente robusto rispetto alle asprezze che lo caratterizzano al momento».

E, ancora:

«La vera domanda non è quando ma quale: quale tipo di economia emergerà dalla crisi? Una che continuerà a creare le disuguaglianze che avvelenano le nostre politiche e minano qualsiasi concetto di bene comune? O rasa una che onori la dignità del lavoro, che premi il contributo dell’economia reale, che dia ai lavoratori una voce significativa e che collettivizzi la malattia e la cattiva sorte?

Dobbiamo chiederci se riaprire significa tornare a un sistema che, negli ultimi quarant’anni, ci ha sempre più diviso, o se siamo in grado di uscire dalla crisi con un’economia che ci permetta di dire, credendolo, che siamo tutti sulla stessa barca?».

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