Privatizzazione è una parola troppo grossa, dice qualcuno, che la sa lunga. Perché non si tratta di privatizzare le reti, ma solo la gestione del servizio idrico. Peccato che la questione sia proprio quella del diritto all'accesso all'acqua, come spiegato all'infinito dai referendari, anche senza necessariamente citare Latina o Parigi.

Se volete una versione più light dello stesso concetto, leggete Enrico Rossi: «Temo che la programmazione pubblica mancando della leva della gestione finisca per perdere la contezza delle cose».

Da lombardo, diffido delle privatizzazioni senza mercato, perché ne ho viste fin troppe, in questi anni. E mi pare che il settore dell'acqua sia quello tra i più esposti alla possibilità che si crei un trust in cui pochi soggetti controllino tutta la partita, come di fatto sta già accadendo. E in tanti anni di federalismo sbandierato e mai applicato nei fatti, vorrei che la decisione, il controllo e la verifica tornassero a livello territoriale. E che non si usasse l'Europa per forzature così evidenti e sgrammaticate, compresa l'imposizione di un limite temporale prefissato, che inevitabilmente influisce anche sul valore dell'operazione. 

Per quanto riguarda il quesito numero 2, è ora che in Italia sia avviata una profonda riflessione sul modello e sulla composizione della tariffa. Sui costi per gli utenti e sugli investimenti pubblici. Ci vuole maggiore equilibrio e maggiore responsabilità ed è del tutto evidente che le variabili in gioco possano essere più complesse di quelle fino ad oggi rappresentate: pensiamo ad esempio al fatto che una società sana inviterebbe a risparmiare sul consumo dell'acqua, penalizzando l'erogatore, che avrebbe tutto l'interesse a pomparne di più. E se è vero che il servizio può migliorare, riducendo i costi grazie a una gestione aziendale, dimostriamolo, perché finora non è andata proprio così.

Da ultimo, a chi fa curiose analogie con il trasporto pubblico, si fa notare che le casse pubbliche intervengono per finanziarlo copiosamente, dal momento che il biglietto copre solo un terzo del costo di trasporto, come sanno tutti quelli che hanno avuto a che fare con la gestione della cosa pubblica.

Mi spingo più in là: che il voto al referendum sia l'occasione per una riflessione sul rischio d'impresa per chi ha concessioni pubbliche, uno dei temi centrali se si vuole davvero ripensare il bilancio degli Enti locali e dello Stato, in un periodo così difficile. E per una disamina del vero significato di territorialità. Perché è da troppo tempo in gioco la necessità di sapere «dove vanno a finire i nostri soldi», come legittimamente si chiedono i cittadini italiani. Che sia l'occasione, infine, per discutere della qualità dei servizi pubblici e di come migliorarla, di come renderla trasparente e a sua volta accessibile, piccolo tema un po' trascurato, in questi lunghi anni.

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