Siamo a metà della clausura. Forse. Ci hanno detto che questa settimana è decisiva per capirlo, per saperlo. Ce lo avevano detto anche la settimana scorsa, per la verità. Però sono passati ventuno giorni dal weekend in cui tutto era ancora aperto, dappertutto o quasi, ed era necessario che questo tempo passasse.

Nina fa le ore grandi, la sera. È scattata l’ora illegale, proprio. Tutto è un fluire, meno male che ci sono i compiti a ricordarci a che punto siamo arrivati. Non abbiamo un’agenda, abbiamo una tabellina. Di marcia.

È tutto un fluire anche di dichiarazioni. «Riapriamo!», «Non è che possiamo andare avanti così per sempre!», «È irreale!». Ci vorrebbe il Nobel per certi personaggi, vero? Mi stupisco non sia assegnato e consegnato a casa con un delivery. Riapriamo i Nobel!

È ovvio che sia così, che prima o poi dobbiamo riaprire, ma ci sono un miliardo di ma. E che il grido provenga dai portavoce delle aziende che hanno chiuso mica tutte e solo giovedì (!), con quel decreto colabrodo, e chiedono già di ri-aprire, la dice lunga su tutto quanto.

Prima anche solo di immaginare di riaprire, dobbiamo avere messo in sicurezza gli ospedali, diviso i percorsi tra i malati da virus e tutti gli altri, dotato delle cazzo di mascherine tutti coloro che ne hanno bisogno, predisposto un piano tamponi, creato meccanismi selettivi accurati. Essere nelle condizioni di riconoscere i focolai, essere pronti a chiudere selettivamente le zone più colpite.

Un giro nei racconti degli ospedali del Nord ci dice che siamo molto lontani da questi obiettivi. E che la gente sta morendo molto più di quanto non ci venga raccontato. Curioso che alcuni politici che hanno sempre dichiarato che si debba ascoltare la scienza, ora distinguano tra chi è politico e chi è virologo.

E c’è anche chi distingue tra i sommersi e i salvati. E sapete chi lo fa? I soliti. Che hanno già sistemato le cose. Le loro cose. Gli altri? Si arrangino. Un giorno vi racconterò quanto sostegno stia ricevendo una piccola Srl dagli altri attori economici con cui ha a che fare. Sarà un racconto breve. Una sola parola: niente.

Ve lo ricordate, una ventina di giorni fa? Tutti a dire che il virus ci avrebbe fatto scoprire il senso autentico delle cose. Che nulla sarebbe stato come prima. Che in fondo è un’occasione per uscirne migliori. Ecco quest’ansia d’aprile e di aprire sembra molto paura di cambiare, voglia di non imparare, bisogno di restaurare ancor prima della rivoluzione.

Facciamo tesoro di ciò che abbiamo fatto e anche di ciò che colpevolmente non è stato fatto. Tutto il resto puzza di ieri. Terribilmente.

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