Un vero uomo sente nel vento l’annuncio della pioggia. Insieme al paggio di Falstaff! Belle trame! Belle macchinazioni – con le nostre mogli ribelli che condividono la dannazione. Ma io lo incastro, torturo mia moglie, strappo il velo posticcio del pudore a quell’ipocrita di madama Page, e svergogno suo marito Page in piazza come un sicuro e beato Atteone; e tutti i miei conoscenti applaudiranno alle mie misure violente.

Franco Ford, Pojana, nasce da qui. Shakespeare, Windsor, Falstaff e appunto Ford. Il suo nome è Ford, Franco Ford.

«Vediamoci, anzi catiamoci», così mi ha risposto Andrea all’inizio di ottobre, quando gli proposi di mettere su carta il mondo del Pojana. Lui lo chiama Pojana, per la verità, senz’articolo. Come se fosse un cognome e una figura mitologica. Mica si dice l’Atena o lo Zeus, del resto.

Andrea è prima di tutto una persona squisita. Lo so, gli editori lo dicono sempre degli autori, ma questa volta è particolarmente vero. Ti aspetta in un bar a Padova, nel suo quartiere, Pojanistan centro, e ti pare di conoscerlo da sempre. Ci si trova, e ci si riconosce, appunto.

Il libro contiene due cose preziose, oltre all’autore: una prefazione-capolavoro di Natalino Balasso e il lavoro di curatela accuratissima di Serena D’Angelo. E c’è il contesto, e c’è l’azione, e ci sono i monologhi, quelli famosi, e le storie delle radici, storte, di tutto questo bendidio che non è sempre un bengodi.

Pojana non è buono, tantomeno buonista. Sta dall’altra parte della barricata, ma ci parla. Ci dice più di qualcosa. Per portarci alle conseguenze, per far risuonare ciò che dice dentro di noi. Non è un transfert, no, al massimo un trasloco. Sposta noi da un’altra parte e quelli là dalla nostra. E forse ci libera, un po’, dal male, come dice il titolo del suo avo e maestro.

Scende dal tanko, Pojana, insieme ai suoi compagni di tregende. E attraversa i nostri bar, i nostri social, ogni giorno. Almeno lo faceva, finché lo “ziovirus” non l’ha costretto in un capannone, chiuso dentro un confine che per molto tempo trovava ne-ces-sa-rio. Il confine. Come quello difeso dal nonno Bepi nella Grande Guerra, di cui parleremo presto e ancora.

Ci siamo messi in tasca pezzi del muro di Berlino e li abbiamo piantati nel giardino di casa.

Lo dice Pennacchi, quando sveste i panni del personaggio. Ecco. E per uscirne, per scavalcare il muro, davvero «catarsi» è la parola, dice Andrea. Con il doppio senso del Veneto profondo. E di provare a stare meglio, quando si sta peggio.

Qui trovate il libro. In ebook, subito, e presto a casa vostra.

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