Come ogni mattina ci siamo svegliati presto per arrivare in tempo allo scuolabus, nella solita piazzetta, a due isolati da casa.

È ormai un rito per noi, al bar all’angolo un caffè per me e la merenda per Nina, da mettere nello zaino. Lei mi chiede se oggi c’è il tempo lungo, se vado a prenderla, ha ancora qualche problema a capire quale sia il giorno della settimana.

Oggi siamo arrivati in anticipo, ci hanno raggiunto gli altri bambini, ci siamo stretti nelle giacche a vento, abbiamo giocato a rialzo, e quando è arrivato il pulmino giallo, Nina non l’hanno fatta salire.

Ci hanno dato un foglio, in cui c’era scritto che una nuova legge impedisce a quelli come noi, come lei, di andare a scuola.

Nina ha visto partire i suoi compagni. È rimasta con me.

La cosa più difficile è spiegarlo a un bambino. Che ti guarda, con gli occhi sgranati, interrogativi, e ti chiede perché. Un milione di volte. E lo sente come una cattiveria, improvvisa, violenta. E se non troviamo noi le parole per spiegarlo, figuriamoci un bambino espulso da scuola.

Ecco, curando il libro dedicato a Liliana Segre, parlandone con lei, ho pensato a cosa deve avere provato suo padre, quando ha dovuto dirle che non poteva più andare a scuola. Quando si è reso conto che era lei, sua figlia, piccola, a essere in pericolo. Liliana, il giorno della legge razzista che la espelleva da scuola, stava per compiere 8 anni. Ne aveva 13 quando furono respinti, al confine con la Svizzera, e dopo poche settimana in carcere, deportati ad Auschwitz.

Suo padre cosa deve avere provato, quando furono divisi? E cosa provano le mamme e i papà quando sono i propri figli a essere messi in pericolo e cercano di metterli in salvo, su una barca, nella notte, spingendoli sotto una rete, al confine?

Avete mai immaginato, davvero, che cosa provi una famiglia costretta a vivere in un campo, a migliaia di chilometri da casa, con i bambini che non possono andare a scuola, che non hanno niente da mettersi addosso e magari da mangiare?

Invece di straparlare di presepi e di richiami astratti alla tradizione e all’identità, pensiamo a tutto questo. A noi come ci sentiremmo. A noi cosa proveremmo. Alla «colpa di essere nati», espressione che Segre ripete ogni volta, quando incontra i suoi nipoti ideali nelle scuole di tutta Italia. La colpa di essere nati nel posto sbagliato. O nel posto giusto, ma in un momento terribile.

La politica dovrebbe lavorare ogni giorno perché quella «colpa» non gravi sulle vite delle persone. Lavorare perché tutti abbiano una seconda possibilità, diceva Garcia Marquez, perché tutti si possano salvare.

Da laico, credo che il racconto di quella notte di migliaia di anni fa, a questo volesse far pensare.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti