People pubblica due libri, contestualmente, che a tutta prima sembrano molto lontani tra loro, ma che in realtà sono legati tra loro ben più di quanto si possa immaginare.

Da una parte le parole dei Democratici americani, in questa campagna di medio termine, dall’altra il messaggio politico di una ragazza italiana di origini peruviane: Per cosa ci battiamo e Lettera agli italiani come me (se siete curiosi, li trovate qui).

Da una parte le elezioni che hanno significato la prima e potente emersione di una composita pluralità delle cosiddette minoranze (che non lo sono affatto, per mille ragioni) e l’affermazione delle biografie universali di molte candidate, soprattutto. C’è chi è nativa americana, chi è musulmana e anche chi è stata eletta dopo essere stata rifugiata politica, per capirci. Biografie in cui i diritti sociali e i diritti civili, che qui da noi qualcuno vuole contrapporre (per negarli entrambi), diventano una cosa sola.

Dall’altra un dibattito politico che nel nostro Paese ancora nega «cittadinanza» (in tutti i sensi) a centinaia di migliaia di persone. Quelli che  la cittadinanza l’hanno raggiunta (sono più di un milione, dal 2000 a oggi) e quelli per i quali la cittadinanza dovrebbe essere automatica, dopo essere nati in Italia o essere cresciuti qui fin dalla prima infanzia (sono quasi un milione).

Negli Stati Uniti è ormai invalso il riferimento al voto delle comunità, da noi non se ne parla proprio. Sulla base di una negazione o quantomeno di una rimozione, si fa finta che il problema – politicamente – nemmeno esista.

In campagna elettorale mi ritrovai a citare Ghali, per farmi capire, perché anche i colleghi, molto preoccupati del proprio collegio (quello sì, identitario, anche se era a molti chilometri da casa), pensavano che si perdessero voti, a parlarne. E che non fosse importante. Come se queste storie non parlassero del nostro presente e del nostro futuro, soprattutto, come scrive Elizabeth nelle pagine finali del suo libro-messaggio.

Elizabeth racconta questa seconda storia, ma non possiamo non pensare alla prima. Non possiamo non pensare a un mondo in cui le identità si definiscono nel corso della vita di ciascuno, sulla base di esperienze anche geograficamente molto lontane tra loro. Di un mondo in cui figure come la sua non sono da temere, sulla base di chissà quale pregiudizio, ma da considerare preziose, perché sono tramite tra mondi e storie diverse. Perché questa loro particolarità ne costituisce la vera «identità».

Dall’altra parte dell’oceano, giovani donne sono elette e rappresentano “a prima vista” il futuro di un grande paese. Elizabeth non può ancora votare e grazie al decreto-comizio del governo vede allungarsi ancora di più i tempi del suo riconoscimento come cittadina italiana. Eppure dovremmo candidarla, non una parte politica soltanto, tutti quanti: dovremmo renderci conto che il suo far parte a pieno titolo della comunità ci rende più forti e più consapevoli.

Amin Maalouf, tantissimo tempo fa (era il 1998), scriveva:

Da quando ho lasciato il Libano nel 1976 per trasferirmi in Francia, mi è stato chiesto innumerevoli volte, con le migliori intenzioni del mondo, se mi sentissi “più francese” o “più libanese”. Rispondo invariabilmente: “L’uno e l’altro”. Non per scrupolo di equilibrio o di equità, ma perché, rispondendo in maniera differente, mentirei. […] È proprio questo che definisce la mia identità.

Il libro si chiamava, appunto, L’identità. Quando lo capiremo, che cos’è, sarà un bel giorno.

Il genero di Trump una volta ha detto che di libri ne abbiamo letti abbastanza: mi permetto di consigliare di non smettere. Anzi, di leggerne qualcuno in più.

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