Nel corso dei mesi passati ho più volte rilevato come la delega del Parlamento al governo sulla riforma del mercato del lavoro fosse piuttosto una delega che il governo imponeva al Parlamento perché il Parlamento lo delegasse in tal senso, come si è manifestato in occasione della doppia fiducia al Senato, su testi diversi, peraltro: una sorta di delega del governo a se stesso. Una delega rovesciata.

Ora leggo con interesse la ricostruzione di Ichino in versione detective circa lo svolgimento del Consiglio dei ministri in cui il governo ha approvato i primi schemi dei decreti che ‘attuano’ la legge delega votata dalle Camere.

Non ho gli informatori di cui dispone Ichino e non posso né smentire né confermare. L’aspetto che mi colpisce di più però è un altro: riguarda la risposta del premier che dichiara, serafico: sulla estensione delle nuove regole ai dipendenti pubblici «deciderà il Parlamento».

Ora, a parte che sul piano della coerenza ha ragione Ichino e chi dice che le nuove norme – se sono ritenute così convincenti, risolutive, salvifiche – dovrebbero riguardare tutti i lavoratori, anche coloro che sono già assunti (mentre come è noto il mitico Jobs Act vale solo per i nuovi), colpisce che nel momento dell’attuazione della delega si rinvii al Parlamento, a cui si ‘delega’ la decisione. La gatta da pelare torna alle Camere, mentre si celebra la rivoluzione epocale avviata dal governo, a botte di hashtag e di diritti che vanno a diminuire (altro che tutele crescenti).

La delega si rovescia, per la seconda volta.

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