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Così l'Amaca di Michele Serra di oggi. E così risponde Andrea Bordone, avvocato giuslavorista, e non posso fare altro che associarmi al contenuto e al tono della risposta:

Questa mattina ho letto l'amaca di Serra e ho pensato di rispondergli così:

 

Caro Serra,

la lettura dell'amaca è da tempo immemore uno dei primi piaceri quotidiani, insieme al primo caffè: questa mattina caffè di traverso!

Ovviamente, non sono in discussione le idee, ma i fatti. Mi pare che anche lei sia rimasto vittima di una delle decine di giuslavoristi all'amatriciana che si aggirano in questi giorni tra governanti, legislatori, opinionisti e commentatori.

Qualche precisazione: dopo la legge Fornero, il ricorso relativo alla legittimità o meno del licenziamento si propone entro sei mesi, il giudice decide normalmente dopo una o due udienze in tempi piuttosto brevi; giusto per avere un'idea, dando un occhio a qualche caso recente: licenziamento 11 febbraio 2013, decisione 7 ottobre 2013 (Tribunale di Milano); licenziamento 17 settembre 2013, decisione 6 giugno 2014 (Tribunale di Busto Arsizio).

Se il giudice ordina la reintegrazione, il risarcimento non può essere superiore alle dodici mensilità (salvo l'ormai mitico caso della discriminazione); se il licenziamento viene dichiarato illegittimo, ma non viene disposta la reintegrazione (il che, dopo la riforma Fornero, avviene in molti casi), da 12 a 24 mensilità. Quindi, rispetto a quanto lei ha scritto questa mattina, nessuna attesa di anni e anni per la decisione, né alcuna possibilità per i furbacchioni di far durare a lungo la causa per far lievitare il futuro risarcimento. Detto questo, se si ritiene che il problema sia costituito dal fatto che in molte parti d'Italia i giudizi sono troppo lenti (il che è vero e grave), mi pare che si debba intervenire su quel tema e che l'idea di affrontarlo rimuovendo le tutele sia davvero stravagante, tanto più da sinistra.

Quanto poi al fatto che con il jobs act si voglia mettere mano alla precarietà, segnalo che, come è noto a chiunque abbia una vaga dimestichezza con la materia (imprenditori, lavoratori, famiglie, sindacalisti, rappresentanti di Confindustria, consulenti del lavoro, avvocati, giudici e così via) il contratto a tempo determinato è stato in questi anni lo strumento di gran lunga più in voga per tenere i lavoratori in condizione di permanente incertezza. Fino a un paio di anni fa era prevista una regola banale ed efficace: per assumere a termine bisogna che ci sia un'esigenza contingente, a termine, appunto. La presenza di quella regola ha consentito in questi anni a migliaia di lavoratori di ottenere la stabilizzazione del proprio rapporto di lavoro, dopo la triste e consueta serie infinita di assunzioni, intervalli, nuove assunzioni, proroghe, pause e quant'altro.

Quel principio è stato dapprima scalfito dalla legge Fornero (niente causale per il primo contratto, della durata massima di un anno) e poi letteralmente demolito dal governo Renzi con il così detto decreto Poletti (niente causale per tre anni). Ora, affermare di voler combattere la precarietà dopo aver liberalizzato totalmente il contratto a tempo determinato è un'evidente contraddizione in termini.

Un sassolino nella scarpa: mi piacerebbe davvero che lei dedicasse un paio d'ore del suo tempo per fare un giro in uno studio come il nostro, dove ci si occupa di tutelare i lavoratori, e avesse modo di avere un'idea di quello che concretamente accade. Leggere che l'art. 18 sarebbe un ferro vecchio "nato quando si licenziava per cacciare dalle fabbriche i sindacalisti e i comunisti" fa sorridere chi quotidianamente ha a che fare con persone licenziate, con la complessità dei punti di vista dei lavoratori e dei datori di lavoro e con il difficile compito dei magistrati di valutare gli uni e gli altri e di decidere della legittimità o meno di un provvedimento che, almeno su questo immagino saremo d'accordo, è destinato a incidere su diritti fondamentali della persona.

Ultima considerazione: ho letto l'articolo di Scalfarotto e credo di sapere qualcosa della situazione inglese. Quello che Scalfarotto ha dimenticato di scrivere è che in Gran Bretagna il sussidio di disoccupazione può avere anche durata indeterminata, il che sposta i termini di qualsiasi discussione in materia di licenziamento. Tutti sappiamo che quel tipo di tutela avrebbe un costo complessivo rispetto al quale la somma di cui ha parlato Renzi in questi giorni è un'inezia. Scalfarotto dice anche che sui licenziamenti discriminatori in Inghilterra si rischiano condanne pesantissime (anche due milioni di sterline), inimmaginabili nel nostro ordinamento secondo le regole attuali. Visto che su quel tema tutti quanti, a partire dal Presidente del consiglio, mostrano con toni solenni di voler garantire ai lavoratori e alle lavoratrici le più ampie tutele, le suggerisco di proporre al governo, insieme a me, un emendamento, che più o meno potrebbe suonare così: "il Giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio o ritorsivo, in aggiunta alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla condanna al risarcimento del danno patrimoniale subito dal lavoratore, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale, nella misura ritenuta congrua in considerazione della gravità della fattispecie. La misura di tale risarcimento deve essere determinata in un importo che, considerate anche le dimensioni dell'impresa, costituisca un'efficace dissuasione rispetto al ripetersi di comportamenti analoghi. Al medesimo scopo, il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza a spese del datore di lavoro, in modo da darne adeguata conoscenza presso l'opinione pubblica". A spanne, mi sa che alla nostra proposta risponderanno con una sonora pernacchia. O no?

Con affetto e stima,

Andrea Bordone

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