Per fermarmi a pensare su ciò che è nuovo e contemporaneo, mi farò aiutare da Giorgio Agamben (solo?). Nella sua ultima raccolta di saggi (Nudità, Nottetempo, che detto così può suonare anche osé), Agamben riflette su ciò che è contemporaneo, partendo da Barthes («il contemporaneo è l’intempestivo») e dal citatissimo Nietzsche delle Considerazioni inattuali (che Agamben traduce con «intempestive»): «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo» (Agamben, cit., p. 20). Il contemporaneo, allora, è colui che si muove attraverso le ombre del presente, e che a partire da queste si rivolge al passato, per reinterpretarlo (come fecero Foucault e Benjamin, ricorda Agamben): «ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere» (ibidem, p. 31). Ora, questo è il punto, e la parentela tra contemporaneità e l'”ora” della moda, che, della contemporaneità, è una delle figure più vistose e utili a comprendere questo tempo inteso (e compreso) a partire da uno scarto, da un anacronismo e da una sfasatura che però lo qualificano nel modo più preciso e nitido. In un paese che parla di sé dalla mattina alla sera ed è in perenne ricerca di novità soltanto per non cambiare mai, è un punto di vista da considerare con grande attenzione. O, almeno, così mi pare.

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