«Gli umani sono una specie migrante, eppure alcuni ci vorrebbero dividere in due gruppi: i migranti e i nativi».

Siamo tutti discendenti di migranti. La nostra specie, l’Homo Sapiens, non si è evoluta a Lahore, da dove sto scrivendo queste parole. Né ci siamo evoluti a Shanghai o a Topeka o a Buenos Aires o al Cairo o a Oslo, dove forse voi le state leggendo.

Persino se oggi vivete nella Rift Valley, in Africa, il continente madre per tutti noi, nel luogo dove sono stati rinvenuti i più antichi resti della nostra specie, anche i vostri antenati si sono spostati – se ne sono andati, sono cambiati e si sono mischiati prima di tornare nel posto dove vivete ora, proprio come io ho lasciato Lahore, ho vissuto per decenni in Nord America e in Europa, e sono tornato a risiedere nella casa dove i miei nonni e i miei genitori hanno vissuto, la casa dove ho passato la gran parte della mia infanzia, apparentemente indigeno ma decisamente alterato e modificato dai miei viaggi.

Nessuno di noi è nativo del posto che chiamiamo casa.

La nostra è una specie migrante. Gli umani si sono sempre spostati. I nostri antenati lo hanno fatto, e non linearmente, come un esercito in marcia fuori dall’Africa in una serie di spinte poderose, ma circolarmente, a volte in una direzione, a volte in un’altra, sospinti da correnti centrifughe e centripete. I nostri contemporanei si spostano – in particolare dalle campagne alle città dell’Asia e dell’Africa. E i nostri discendenti si sposteranno anch’essi. Si sposteranno con i mutamenti climatici, con l’innalzamento del livello dei mari, con il combattersi di nuove guerre, con la morte di un modello economico e la nascita di un altro.

Il potere della nostra tecnologia, il suo impatto sul pianeta, sta crescendo. Di conseguenza il ritmo del cambiamento sta accelerando, dando vita a nuovi fattori di stress, e la nostra agile specie userà gli spostamenti come parte della sua risposta a questi fattori di stress, come hanno fatto le nostre bisnonne e i nostri bisnonni, come siamo progettati per fare.

Ciò nonostante, ci viene detto che tali movimenti sono senza precedenti, che rappresentano una crisi, una marea incontrollata, un disastro. Ci viene detto che ci sono due tipi di umani, nativi e migranti, e che questi devono lottare tra loro per la supremazia.

Ci viene detto non solo che il movimento nello spazio può essere fermato, ma che anche quello nel tempo può esserlo, che possiamo tornare al passato, a un passato migliore, in cui il nostro paese, la nostra razza, la nostra religione, erano davvero grandi. Dobbiamo solo accettare la divisione. La divisione degli umani in nativi e migranti.

La visione di un mondo di muri e di barriere, e delle guardie e delle armi e della sorveglianza necessarie per difendere quelle barriere. Un mondo in cui la privacy muore, e con essa la dignità e l’uguaglianza, e in cui gli umani devono fingere di essere statici, inamovibili, ancorati alla terra su cui stanno al momento e a un tempo come quello della loro infanzia – o dell’infanzia dei loro antenati – un tempo immaginario, in cui stare fermi al proprio posto è solo una possibilità immaginaria.

Questi sono i sogni di una specie sconfitta dalla nostalgia, in guerra con se stessa, con la propria natura migrante e con la natura della propria relazione con il tempo, che urla per negare il costante movimento rappresentato dalla vita umana.

Forse pensarci come migranti ci offre una via d’uscita da questa distopia incombente. Se siamo tutti migranti, è possibile allora che ci sia una comunanza tra le sofferenze di una donna che non ha mai vissuto in un’altra città e ciò nonostante si sente straniera nella sua stessa via, e le sofferenze di un uomo che ha lasciato la propria casa per non rivederla mai più.

Accettare la nostra realtà di specie migrante non sarà facile. Nuova arte, nuove storie, nuovi modi di essere saranno necessari. Ma il potenziale è enorme. Un mondo migliore è possibile, un mondo più giusto e inclusivo, migliore per noi e per i nostri nipoti, con cibo migliore, musica migliore e anche meno violenza.

Una specie di migranti finalmente a proprio agio nell’essere una specie di migranti. Questa, per me, è una destinazione che merita di essere immaginata. È la sfida e l’opportunità chiave che ci offre ogni migrante: vedere in lui, o in lei, la realtà di noi stessi.

(Mohsin Amid, Siamo tutti migranti, Nat Geo di agosto)

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