Domenico Quirico ha scritto un altro libro memorabile. Lo pubblica Neri Pozza, s’intitola Morte di un ragazzo italiano. In memoria di Giovanni Lo Porto.

Nei giorni – purtroppo, nei mesi – di Silvia Romano e di molti altri rapiti e scomparsi, non può lasciare indifferenti un libro in cui l’autore parla del proprio rapimento e di quello del ragazzo che poi fu ucciso – Quirico scrive «ammazzato» – da un drone americano. Ammazzato proprio da chi avrebbe dovuto liberarlo.

Quando sei prigioniero non c’è nessuno che si prenda cura di te: sei assolutamente solo.

[…]

Sei lì chiuso in una stanza, io Giovanni gli altri rapiti nel tempo, e non sai nulla… immagini sogni ti illudi: che il tuo paese si mobiliti, che la gente si chieda quale sarà il tuo destino, che per i politici i ministri i generali dei Servizi segreti tu la tua scomparsa il tuo destino siano una preoccupazione, che ne parlino tra loro, che studino tutti il modo di tirarti fuori, che ogni giorno che passa ogni mese ogni anno sia per loro come una sconfitta personale e un peccato per non essere riusciti ancora a ottenere niente.

Devi sperare, dannazione! Perché se il dubbio comincia a roderti, se intuisci che tu non sei niente per loro, che ti stanno dimenticando, che la vita li prende, anche quelli che ti amano!, e che non sei altro che un punto impreciso, disperso in qualche parte del mondo, allora cominci a pensare che non c’è ragione per resistere.

È un libro sconvolgente, in cui ogni riga è dolorosa, impossibile da accettare per chi lo scrive e per chi lo legge. Un requiem. Personale e collettivo. E un requiem – viene in mente Dürrenmatt – per la stessa inchiesta giornalistica, che non può che fallire di fronte al caleidoscopio di menzogne e di falsità, di segreti e di doppi e tripli fondi in cui tutto precipita. Il caso era chiuso fin dall’inizio, in ogni accezione del termine. Quirico lo sa bene, lo sa da sempre, ed è proprio per questo che ne scrive. Per andare a fondo dove il fondo non c’è.

Memoria di un ragazzo italiano è, anche, un libro che temo profetico sulla guerra-sporca-perché-pulitissima portata con i droni, che tolgono la paura ai combattimenti, allontanando il pensiero della morte che si trasmette, da remoto, come se non fosse reale, come se lo fosse ancora meno di quando si sganciano le bombe da un aereo a millemila metri di altitudine.

Aver paura ti dà un senso di fraternità, impari a esser prudente, a non esagerare nella onnipotenza, a riflettere sulle conseguenze di quello che fai. […] La guerra senza l’odore pestifero della cordite, senza le fitte allo stomaco per la paura, senza il silenzio morboso che fa tremare le mani prima dell’inizio della battaglia, senza il bisogno corporeo, umiliante di liberarti che spesso non riesci a controllare.

Ed è un libro sul linguaggio della politica che diventa osceno quando si tratta di vittime da giustificare, in nome di un “bene” più grande, di una “ragione” superiore.

In quella plaga del mondo il Grande Gioco diventa piccolo, microscopico. Per i mezzucci dei mezzani, per le opacità di chi difende la civiltà con modi largamente incivili, per il destino del singolo ostaggio, che è una cosa, non più una persona, da valutare sulla base di parametri che con la sua vita non hanno più niente a che vedere, a che fare. Così come l’umanità, che da quella scena, da quel quadrante è sparita da tempo. E che di certo non si ritrova nemmeno nelle presidenze, nelle cancellerie, in quel riservatissimo quartier generale di chi decide o pensa di decidere per tutti gli altri.

#ilibrideglialtri

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