Siamo giunti con baldanza al sessantamillesimo post della quarantena che si allunga. La realtà inizia a far capolino e non è sempre una bella scoperta. Lo è, intendiamoci, ma con punte drammatiche e inquietanti.

Sono giorni che con Paolo Cosseddu ci diciamo che è tipo una gigantesca parafrasi di quella frase di John F. Kennedy, a proposito di ciò che puoi fare tu per il tuo Paese e ciò che può fare il tuo Paese per te.

Tra le cose che possiamo fare noi, c’è lo zelo lungo già due mesi di responsabilità collettiva che ancora ci stupisce, il metro (misura di tutte le cose), la mano guantata, la mascherina. Il rispetto di norme banali e però decisive. Il rigore per sé e per gli altri. La cura per chi è più esposto, anche.

E c’è soprattutto quel minimo indicatore morale per cui chi sta meglio deve aiutare chi sta peggio, non spingerlo giù dal burrone. Se avete una fattura da pagare e potete pagarla, fatelo. Se avete un fornitore che ha bisogno di una mano, tenetene conto. Se ci sono cose in sospeso, valutatele seguendo un criterio non solo, strettamente, economico. O forse supremamente economico, perché dietro le bolle ci sono le persone.

Posso assicurarvi per ora che nel settore in cui opero sta succedendo esattamente il contrario. Asimmetria informativa – «ciò che so non te lo dico, fottiti!» – e il classico del pesce-grande-che-mangia-il-pesce-piccolo. Andrà tutto bene? No, così proprio no. Andrà tutto iene.

Ecco, fine di ciò che possiamo fare noi (con un’aggiunta: la prossima volta evitiamo di votare per pazzi furioso, spammatori di fake e vessilliferi della irresponsabilità strategica verso ogni cosa).

Poi inizia ciò che può fare il nostro Paese per ciascuno di noi. E qui, insistiamo con le tre T del test, del trace e del treat, di cui da queste parti si parla ben prima che diventassero le tre T. In ogni caso, test, tracciamento e trattamento, non necessariamente in quest’ordine. Parola chiave: precocità.

Dicevano, i geni, che i test non servivano e invece si sono finalmente messi a farli, a dimostrazione che servivano eccome. Sarebbe importante avere la mappatura dei focolai e delle situazioni più critiche (Rsa e ospedali, dato che in Francia comunicano periodicamente). Sarebbe civile non diffondere dati-pasticcio come quelli degli ultimi giorni, in cui molte Regioni hanno comunicato dati a conguaglio, strani picchi e falsissime informazioni, come tamponare sempre gli stessi, alla ricerca ossessiva del guarito. Così non ne usciamo vivi, che si sappia, una volta per tutte.

Oltre a ciò ci aspettiamo anche scelte politiche, al di là del decreto aprile divenuto decreto maggio. Ecco, superare il decretismo sarebbe davvero l’inizio di una fase nuova, un’idea di futuro sarebbe gradita. E un futuro che non sia più quello di una volta, se si può.

Abbiamo chiesto molto a noi stessi, chiediamo di più al Paese, insomma.

Ci sono cose che si possono fare bene – per esempio la regolarizzazione degli invisibili lavoratori in nero che già operano nel nostro paese, per ragioni di dignità e di diritto ben prima che per ragioni economiche. Per esempio la costruzione di una catena del valore che non sia quella dello sfruttamento. Per esempio la progressività e la patrimoniale per chi sta molto, molto, molto bene. Per esempio una svolta ecologica, soprattutto per quanto riguarda l’efficienza energetica (se non ora, mai?). Per esempio la legalizzazione della cannabis, tema sul quale spero che si sia voluto riflettere in queste settimane di isolamento e di consumo di cannabis, appunto.

Per destinare risorse a scuola e sanità, direi. A meno di non voler credere che possiamo permetterci una sorta di meccanismo tipo moto perpetuo del debito pubblico. A meno di non pensare che possa esistere una scuola delle targhe e delle aule alterne, che non sta né in cielo né in terra.

Per tutto il resto, consiglio una lettura del nostro documento per la fase 3, in cui molte di queste cose sono illustrate e spiegate nel miglior modo. Possibile.

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