Quand’è che ci si abitua, quand’è che precisamente iniziamo ad abituarci? Quanti giorni devono passare o sono già passati? Perché la noia ha raggiunto il picco, ora la discesa è rassegnata. E ci si abitua. Anche questo non lo avremmo detto mai.

La cosa innaturale è che tutto inizia a sembrarmi naturale. Una casa portoghese, per gli amanti del fado. Tutto è promessa, parafrasando la canzone, per il resto ci si accontenta di poco. La decrescita non troppo felice.

Sulla riapertura “quelli della tv” comunicano tutti date a vanvera, pare quello sketch in cui il Benigni da giovane si inventava date non significative spacciandole come ricorrenze. Per citare Nina, apriremo il 31 di aprile. E non sappiamo ancora di quale anno.

Le giornate fuori sono spettacolari. Provocatorie. Non saremmo rimasti in casa un minuto, con giornate così. E invece. C’è anche vento. Un vento che però non ti porta via.

Gli “apristi” a tutti i costi si sono fortunatamente un po’ chetati. Torneranno con i primi caldi.

C’è qualcuno che ha proposto un gioco, sempre che di gioco si possa parlare, in cui siamo invitati a ricordare che cosa stavamo facendo prima del lockdown. Ricordo di avere bevuto un caffè nel bar sottocasa, roba da matti, e di essere passato dalla solita libreria – l’unico negozio in cui si entrava uno per volta anche prima del virus -, e poi più nulla.

A proposito di casa, la Casa di carta è arrivata alla quarta stagione. L’idea geniale è la voce fuori campo che accompagna e a volte anticipa le battute dei personaggi e le scene stesse. Per farmi compagnia, la introdurrò anche in casa. «Pippo va in cucina», «attraversa il corridoio», «il suo viso è perplesso». Per il resto, gireremo soprattutto interni. La storia di un ostaggio, con mascherina di Dalì.

A un certo punto, non so bene a che punto di una serie che si guarda arottadicollo, Palermo canta Libre, una canzone di Nino Bravo del 1972 che ha a che fare con la storia di chi per primo tentò di “saltare” il Muro di Berlino e che un gruppo un po’ tamarro rilanciò quando ero ragazzo. Il testo a me ricorda Bilbao, la settimana grande, quando c’erano gli assembramenti. Che sembrava una brutta parola, invece è bellissima.

La canzone dice: «Libero, come un uccello che scappò dalla sua prigione e poté finalmente volare».

“Ci si abitua a tutto”, questo si sapeva. Che invece ci si potesse abituare al niente, questa è decisamente una novità.

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