Il semplice fatto che la questione da banalmente umana sia dovuta diventare social, con un hashtag che rivolge una domanda all’Eliseo, alle istituzioni francesi e ivoriane, senza che nessuno si degni di rispondere in modo compiuto, dice quanto sia guasto il mondo.

Ani è morto nel vano di un carrello di atterraggio dell’airbus AirFrance partito da Abidjan per Parigi all’inizio del 2020 – il 7 gennaio, esattamente un mese fa. Ci aveva commosso, quella storia, ricordate? Ecco, il suo corpo non è ancora tornato a casa, dalla sua famiglia. E non sappiamo se e quando tornerà. Né chi se ne sta occupando, se non Chiara Alessi e pochi altri.

I genitori non possono prendere un aereo e andare in Francia, non hanno il permesso di farlo. Il riconoscimento del cadavere del ragazzino sarebbe dovuto avvenire, secondo la polizia ivoriana, dal riconoscimento dello zainetto di scuola con cui Ani era partito. Nessuno si è preoccupato di organizzare il viaggio di ritorno del ragazzino che quel pomeriggio non è tornato dai suoi, ma è salito su quell’aereo, per andare in Europa.

Non credo ci sia da aggiungere altro. Ani non era un soggetto pericoloso e non è nemmeno un migrante vivo, di quelli che ci fanno paura. È morto, Ani, solo, in volo verso una speranza che non c’era.

La verità è che non c’è umanità, non c’è pietà per persone che non sono nemmeno considerate tali. Ci sono solo potenti che non rispettano nessuno, nemmeno se stessi. Intorno a loro ipocrisia e nient’altro.

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