Christian Raimo lo scrive alla fine del suo saggio Contro l’identità italiana, Einaudi. Dobbiamo andare a caccia di bibliografie che ci possano aiutare a uscire da trappole e gabbie nelle quali siamo finiti, con tutti e due i piedi, ma soprattutto con la testa.

È una frase centrale, per me. Rispetto alla questione dell’identità, di cui mi sono occupato a lungo e mi fa piacer aver ritrovato nel libro di Raimo tanti piccoli pezzi di pane nel percorso che ho seguito anch’io, in questi anni. E non solo rispetto alla questione dell’identità, che pure ne contiene molte altre, in quel tentativo vano e controproducente di ridurre tutto quanto a non si sa bene cosa.

In queste settimane ho pensato che l’«aprite i porti!» – grido disperato contro la peggiore delle disumanità, quella televisiva – debba sempre essere preceduto dall’«aprite i libri!». E che, come invita a fare Raimo, si debba lavorare sull’analogia, lo scarto, la deviazione, più che sull’essenzialismo di pseudoconcetti che non sono altro che specchietti per le allodole. Oltretutto retrovisori.

L’Italia che si chiude in se stessa perde di vista la propria storia. Perde se stessa. Rimane così, chiusa e fissa, in una condizione sempre più precaria e difficile. Rivolta a un passato che non c’è più e in alcuni casi non c’è nemmeno mai stato. Incapace di pensare al futuro, a ciò che ha davanti, a cosa le capiterà, a cosa arriverà. La cultura è l’unico antidoto e se ci pensate è così italiano affermarlo.

#ilibrideglialtri

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