Per oggi un estratto del libro che ripercorre la rassegna stampa del futuro di Alex Langer e che motiva la necessità di un «piano» a lui dedicato (e da lui ispirato). Buona lettura (e buona politica).

Non si tratta solo di considerazioni generali, culturali o pre-politiche. Per me Langer offre, anche al lettore di oggi, anche all’elettore sempre più disilluso, un punto di vista politico nel senso più pieno e vero del termine. Una proposta politica completa, tutt’altro che velleitaria o utopistica. Tutt’altro che minoritaria: perché anche se non è mai stato davvero preso sul serio, in una politica della ragion di Stato, del “si è sempre fatto così”, della concretezza fine a se stessa che si è rivelata puntualmente poco efficace, quello di Langer è un piano.

E, allora, più che il solito piano Marshall, che poi non arriva mai, ci vuole un piano Langer, per l’Europa. Per il pianeta, oserei dire.
Un piano che punti sull’innovazione, sulla mediazione, sulla biodiversità e, insomma, sulla qualità (perché è un problema di qualità, soprattutto). Una risposta che non guardi all’oggi, ma al domani e alla possibilità che un domani ci sia. E anche una risposta a ciò che vediamo, ai fantasmi che si aggirano per l’Europa e fanno spavento, per diverse ragioni, tutte pessime e pericolose.

Al ritorno al passato e alla nostalgia di cose orrende si risponde con un investimento sul futuro, sulla ricerca, sulla strategia in campo ambientale, prima del diluvio e dell’estinzione, di quei rischi che Langer vide e denunciò prima di altri.
Alla contrapposizione tra Nord e Sud del mondo – in un rapporto letto solo in chiave migratoria, difensiva, come se fossimo in una fortezza da difendere dall’arrivo degli alieni – si risponde riproponendo il tema di una relazione politica intensa e concreta, che Langer caldeggiò, promosse, organizzò nella Campagna Nord-Sud (1988-1994), che seppe intrecciare la questione ambien- tale e quella delle disuguaglianze, come ci ha ricordato Giuseppina Ciuffreda.

All’imporsi di una tecnologia che è concentrata nelle mani di pochi, pochissimi, e che non farà altro che far esplodere ulteriormente disuguaglianze già dolorose, si risponde con la necessaria estensione dei suoi benefici, dal punto di vista delle persone e del mondo stesso in cui viviamo.

Alla perdita di influenza dell’Europa e alla sua indifferenza verso ciò che le accade intorno, si può risponde- re con l’appello più accorato tra tutti gli appelli di Alex. Allora si trattava di Sarajevo («L’Europa muore o rinasce a Sarajevo»), dei ragazzi di Tuzla (di fronte alla strage dei quali scrisse: «Ogni ragionevole possibilità europea è sta- ta, nei mesi e negli anni, buttata via»11), di una guerra abominevole; oggi si tratta di un braccio di mare attraversato da disperati, della Libia e di un’intera civiltà del diritto negletta e stuprata, di ciò che è stato in Siria, di ciò che accade nei Paesi da cui provengono le persone che muovono verso di noi. Un’Europa politica che non c’è e non sa cosa dire di ciò che è il mondo di oggi, verso il quale non sente alcuna responsabilità.

Al sovranismo, che poi sarebbe il solito nazionalismo, si risponde con una politica europea di grande scala, degna di questo nome, sulle migrazioni, sulle disuguaglianze, sul modello di sviluppo.

Alle parole volgari, violente, di chi vuole dividere e contrapporre, alla Babele del rancore e dell’astio, si risponde con il tentativo di una traduzione, con la ricerca di soluzioni migliori per vivere insieme nell’unico mondo che abbiamo a disposizione.

Una proposta per l’Europa sarebbe naturalmente una proposta per l’Italia, che potrebbe diventare il Paese dell’efficienza energetica, dell’economia circolare, della ricerca, dell’accoglienza fatta bene, della produzione avanzata, della qualità (vedi sopra).

È solo così che si trova una strada. Non esistono più le “mezze parole”, potremmo dire. Se gli altri giocano pesante, dobbiamo farlo anche noi, che non ci adeguiamo, e progettare qualcosa di più grande. Che è un po’ il senso, che si va perdendo, per cui è stata concepita un’Europa politica. Langer lo diceva ormai trent’anni fa. La sfida è ancora quella.

In questi anni la destra ha costruito un immaginario, fatto di cose palesemente inventate, di soluzioni facili da vendere e impossibili da realizzare, creando miti e fake, ricorrendo a piene mani al vieto complottismo che fu essenziale anche per i regimi del Novecento. Intorno alla paura ha costruito una filosofia della politica e della vita delle persone, negando la possibilità di una speranza, disumanizzando la società, costruendo nemici e dividendo le comunità.
La risposta dei progressisti non è stata all’altezza: sulla difensiva fino alla proposta di soluzioni omeopatiche, sotto botta per via dell’aggressività altrui, incapace di raccontare con parole altrettanto nitide e coinvolgenti un modo diverso di concepirsi e di concepire la nostra vita associata.

Sono stati banditi i Langer, sono stati isolati gli intellettuali, è stata ridotta l’ambizione del nostro stesso modo di guardare alle cose, alle persone, in una politica miniaturizzata e quindi caricaturale. Dove conta uno solo, meglio se arrogante, prepotente, manesco.

Eppure, tutto ciò di cui Langer si occupava è squadernato ancora, nelle pagine di un’attualità sempre più confusa, incerta, contraddittoria. Ponti versus muri, noi e loro, il baratro che si avvicina mentre ci occupiamo di raccogliere con avidità tutto il potere e tutto il denaro che ci capita a tiro. Tutto è oggi e con l’oggi finisce. Fino alla perdita del futuro, la sua negazione.

Il piano Langer, People, Gallarate 2019, pp. 19-22.

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