«Il Pillon non è un disegno di legge di un senatore eccentrico, è un disegno di società condiviso dal suo partito e da un largo schieramento di forze», ricorda Beatrice Brignone.

«Non è una battaglia, uno scontro tra i generi», rincara Francesca Druetti, «è una battaglia di civiltà, anche se ci vogliono far credere il contrario». Luisa Betti è certa: i fondamenti teorici del disegno di legge e delle altre iniziative ad esso collegate sono frutto di analisi che coprono comportamenti criminali, che danneggiano le donne, i minori, e le stesse famiglie.

Il disegno di legge Pillon è la summa o forse, meglio, un bigino dell’intero WCF.

Si inserisce in un disegno globale, da Oriente a Occidente, dagli ambienti più integralisti vicini a Putin alla politica di Donald Trump, passando per l’Ungheria e la Polonia, ancora più insidiosa, quest’ultima, per molte ragioni, rispetto agli equilibri europei, e alle scelte politiche di cui stiamo parlando. Un filo che più nero non si può che arriva fino a Bolsonaro, vero campione del mondo in questo campo e non solo.

In ogni discorso pubblico di quel fronte si derubricano le violenze, si ridimensiona la portata della Convenzione di Istanbul, si mettono sullo stesso piano gli abusi e la fantomatica sindrome da alienazione parentale, si mistifica il rapporto del potere economico tra uomini e donne, il momento più delicato della separazione, in cui le disuguaglianze si fanno ancora più dolorose.

La buona politica deve finalmente rispondere a questo contrattacco alla società moderna e alla sua organizzazione, un’azione strategica che non risparmia richiami dichiarati all’omofobia (gli omosessuali vanno curati, criminalizzati, espulsi dal consesso civile), che usa gli stereotipi per risolvere il welfare con un sistema in cui sono le donne a farsi interamente carico della cura e della famiglia (appunto), scegliendo paraventi come la questione dei padri separati (le cui difficoltà vanno affrontate con altri strumenti, se è vero che in una separazione si impoveriscono tutti, ma soprattutto le donne), e vere proprie bugie, ovvero che il principale interesse è quello dei minori da tutelare, che diventano invece solo oggetto di una controversia.

L’altra sera in tv una nota politica, quando le è stato fatto notare che lei difende la famiglia naturale (!) ma non ne fa parte, si è messa a sbraitare perché, dice, è giusto che della sua famiglia si interessi lei e che gli altri si facciano gli affari loro. Ed è esattamente quello che hanno chiesto 100.000 persone che hanno manifestato a Verona.

È stata una festa. La contro-manifestazione era quella degli altri, protetta da blindati, da camionette, da elicotteri, con uno schieramento di forze spropositato.

Era quella del WCF la manifestazione contro la normalità, la gioia, la felicità, l’amore. Contro la possibilità di vivere la propria vita, ma anche contro la ‘seconda’ possibilità, come diceva Gabo, quella di cambiare la propria vita, se si è partiti da condizioni svantaggiate o se non ci si sente realizzati.

Questo cantavano gioiose le manifestanti che hanno attraversato Verona, abbattendo un muro di ipocrisia, scardinando quel potere che chi ce l’ha se lo vuole tenere tutto per sé: se si innervosiscono e si radicalizzano è proprio perché si accorgono che quel potere lo stanno perdendo.

Ora c’è da capire se queste questioni di «sostanza» saranno al centro della proposta politica di chi si candida a governare l’Europa e i vari paesi, se si avrà il coraggio di superare timidezze, incertezze, ritrosie e di puntare diritti verso i diritti. Di tutte e tutti. Perché se i diritti non sono di tutti, significa che alcuni sono privilegiati e altri invece penalizzati, tenuti volutamente i margini.

È per questo che il messaggio delle donne, già di per sé universale, copre tutto quanto, andando a intaccare gli equilibri della politica e mettendo in discussione anche i rapporti economici, in profondità, come chi parla di femminismo del 99% (in Italia per i tipi di Laterza).

Nell’ultima giornata veronese, saranno le “Nonunadimeno” di tutto il mondo a incontrarsi, perché come si è letto su un cartello durante il corteo (pieno di cartelli bellissimi, ma questo era il più bello e carico di senso politico), «la sorellanza non conosce frontiere, non ha confini»: è quella forma di internazionalismo, intergenerazionale e interclassista che molti stanno cercando, e che le donne hanno trovato. E lo hanno trovato perché lo hanno cercato. Con tutte le loro forze, con tutta la loro voglia, con tutta la loro capacità di dare vita, di fare mondo.

[Segue]

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