Nonostante quello che si pensa e si dice e di cui si parla dalla mattina alla sera, siamo un paese di emigrazione, più ancora che di immigrazione. Lo dice la nostra storia, lo dice la nostra attualità.

Siamo tra i primi paesi al mondo per emigrazione. E non sappiamo bene nemmeno quanti siano, gli emigranti: abbiamo statistiche incerte, anagrafi parziali, nessuna contezza del fenomeno. Ci affidiamo a luoghi comuni che spiegano pochissimo le cose, come la maledettissima espressione «cervelli in fuga», ancora in voga, nonostante sia palesemente una stronzata.

A Barcellona ho incontrato le italiane e gli italiani che avevo invitato qui. Sono affezionatissimi all’Italia ma rivendicano una sorta di «identità internazionale». Sono cresciuti in un mondo per il quale muoversi è naturale, e spingersi oltre confine è solo un dettaglio dal punto di vista amministrativo. Cercano esperienze, vogliono stare bene. Sono spinti da ragioni personali, a volte personalissime, e professionali, soprattutto. Soffrono Brexit, sono preoccupati dalla mancata composizione della questione catalana, parlano dei problemi amministrativi e di documenti, senza l’assillo del permesso di soggiorno, ma con più di un motivo di ansia.

Sono giovani e si chiedono che cosa ne sarà di loro tra dieci anni. Che se anche la politica facesse così, ovvero prendesse sul serio il «preoccuparsi di ciò che ne sarà di noi», sarebbe un notevole passo in avanti.

Chiedono più ricerca e formazione, rivendicano la qualità della ricerca italiana («migliore delle altre, ma senza fondi e con un contesto non certo favorevole»), si dispiacciono perché il nostro paese non è altrettanto attrattivo e parlano spesso di «accessibilità», perché cercano un posto dove la vita sia facile da vivere e dove ci siano, insieme, organizzazione e libertà.

Sono, infine, innovativi, perché cercano i posti dove c’è innovazione, dove poter fare quello per cui hanno studiato, dove c’è qualcuno che investe, dove cercare la propria strada: e forse questa è la vera metafora, di tutto quanto.

Non c’è alcuna retorica dell’andare via a tutti i costi, né del non tornare mai più: è un gioco di possibilità, soltanto, legato a una trama esistenziale, non certo ideologica.

Se la biografia del Paese assomigliasse alla loro, avremmo trovato una via d’uscita. Che non significa scappare, significa solo vivere, al meglio che si può. E proporre soluzioni che siano al passo con i tempi, che sappiano anticipare ciò che accade nel mondo.

Il loro viaggio prosegue e non è affatto detto che la destinazione rimanga la stessa: e il nostro?

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