A volte anche polemiche violente possono portare a una riflessione che consenta a tutti di fare un passo più in là, verso la comprensione degli altri. È ciò che sta accadendo in Germania dopo l’acceso dibattito nato dalla vicenda del calciatore Mesut Özil: la campagna (che però è soprattutto occasione di riflessione) #metwo, lanciata da Ali Can, di cui scrive oggi il Corriere, è un esperimento-denuncia di grande interesse.

Perché ci ricorda che il razzismo è un problema gigantesco da cui nessuno può dirsi immune, ma anche per un’altra ragione, forse ancora più importante e cioè che le identità non sono date mai una volta per sempre, che lo stesso concetto va messo in gioco, che in questo mondo – e in quello a venire – saranno trame che si intrecceranno tra loro, come consiglia anche il filosofo François Jullien in un libro che Einaudi ha recentemente pubblicato in Italia (L’identità culturale non esiste): «tensione» e «scarto», non «differenze» da enfatizzare e da ribadire, non qualcosa che è dato per sempre, a nessuno di noi (e vengono in mente anche pagine illuminanti di Amartya Sen, in proposito): un insegnamento per Jullien che parla anche all’Europa e alla sua identità che non può essere, se mi perdonate il gioco di parole, identitaria (consigliatissima la lettura di ciò che scrive Donatella Di Cesare in Marrani, della stessa collana).

Sarebbe di straordinario interesse se anche in Italia qualcuno lanciasse una riflessione analoga. Raccontadosi alla prova dell’«identità», la propria e quella altrui.

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