C’è molta emotività, come capita troppo spesso, in un clima da tifosi prima ancora che da elettori e da cittadini. Ormai si parla di politica come si parla di calcio, non c’è più nemmeno bisogno di metafore. È la stessa struttura del discorso che assomiglia a mille discussioni del lunedì italiano. E purtroppo in politica il Var non c’è o non interessa, perché la coerenza ingesserebbe il flusso, quindi tutti sono tenuti a cambiare posizione in continuazione, anche soltanto per parlare di sé.

Diego De Silva ha scritto un libro che descrive perfettamente la temperie nella quale ci troviamo. Luoghi comuni che si rincorrono, che si sovrappongono, che si smentiscono, in un flusso di incoscienza. In superficie. A bassa risoluzione, direbbe Massimo Mantellini.

Tutti commentano tutto. Subito. Senza fiato. A ogni giravolta, si gira anche tutto il resto. E a un certo punto viene a tutti di girare la testa, dall’altra parte. Non parlerò del dibattito interno a LeU, perché ho fatto un fioretto, ma mi pare che cambi a ogni stormir di fronde, senza alcuna prospettiva politica e nessun riferimento con la realtà, se non letta attraverso le lenti del più sofisticato dei politicismi.

Ora pare che il governo si faccia e come ha giustamente commentato Beatrice Brignone, i 5stelle a furia di dirsi né di destra né di sinistra stanno varando un esecutivo con l’ultradestra. In uno schema che supera anche il precedente, perché di fatto oltre alla Lega altri amici – di ogni tipo di destra – si avvicinano.

Dall’altra parte, il cosiddetto e sedicente fronte repubblicano oggi è in realtà il fronte delle larghe intese della volta scorsa.

Senza un progetto che non sia quello già bocciato, peraltro sostenuto – quasi fosse un’ossessione – con continue citazioni del referendum di due anni fa e di scelte politiche che hanno dimezzato il consenso. Ricordate il disastro e il vice-disastro? Ecco.

Più che del futuro dell’Italia, si continua a parlare del futuro di se stessi.

Con le stesse persone, citate come se fosse una giaculatoria, un album delle figurine Panini, di questi anni. Un album di famiglia, non esattamente il fronte del rinnovamento.

A intestarselo, tutti i ministri dei governi che sono usciti sconfitti dalle urne. Tutti. Se non sei stato ministro, non fai fronte. Nel frattempo, i supporter danno la colpa a chi in questi anni ha segnalato che si andava a sbattere, a chi metteva in allarme rispetto a scelte totalmente impopolari, che hanno tradito il centrosinistra, oltretutto. L’analisi del voto si riduce a dare colpa agli altri e a riproporsi così come si è e si è stati fino a ieri.

Se si vuole cambiare schema, lo si deve cambiare. E per fare un fronte, una lista, qualsiasi cosa, ci vuole un progetto condiviso. Ci vuole una visione politica comune. Ci vogliono cose diverse e persone che non abbiano avuto responsabilità di una politica letteralmente opposta. Ci vogliono proposte che riducano le disuguaglianze, che portino in Europa un’esigenza politica che non è stata manifestata e che sta portando a ribaltare le politiche italiane e europee, che da queste ultime dipendono, ci piaccio o no. E quelle europee di questi anni, piccolo particolare, sono di destra.

Curioso che chi ha fatto il proprio ingresso in politica per superare l’anti-berlusconismo (poi abbiamo capito anche perché), ora voglia definirsi solo come anti-cialtroni, avendo fatto parecchio ricorso alla cialtroneria, in questi anni.

Se si vuole fare qualcosa di grande, bisogna affrontare le contraddizioni e le responsabilità di ciascuno. E azzerare tutto, con la voglia di ricominciare, da dove ci siamo persi, da dove abbiamo iniziato a rovinare le cose, se abbiamo il coraggio di aprire sul serio una nuova stagione. Perché così, a proposito di stagioni, è come in quelle primavere in cui continua a piovere, forte. E non è solo colpa del governo che (forse) arriva (e dei mille forse che lo accompagnano, nelle sue contraddizioni), che ancora non c’è. Ma anche del precedente, che a questo ha aperto la strada.

Se vogliamo parlare di Repubblica, facciamolo, personalmente ne sono affezionatissimo. Non in modo rituale, però, e a uso del nostro marketing. Nelle sue strutture profonde, nelle sue declinazioni culturali e sociali. Perché non è di un «partito della nazione» – soltanto ripresentato con un altro titolo – ciò di cui abbiamo bisogno, ma di uno sforzo che riguardi tutti, nessuno escluso, perché la Repubblica siamo tutte e tutti noi. Individualmente e collettivamente. E proprio perché il pericolo che si rovini tutto è molto presente, non facciamo operazioni retoriche, pubblicitarie e quindi fallimentari (lo abbiamo già visto), ma politiche, cariche di significato per la vita delle persone, non dei politici stessi.

Non è un remake, quello che ci vuole. È una prospettiva, quella che da elettore mi sento di chiedere. Mettere in parola le cose che servono, non le formule per farsi un selfie. Qualcosa che duri più del tempo di una dichiarazione, più di un lancio di agenzia, più di un lancio nel vuoto. Cosmico. Altrimenti perderemo ancora, perché saremo perduti prima di iniziare.

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