È dimostrato che uno dei pochi modi per ridurre le morti da overdose è creare dei centri dove le persone possano assumere droghe sotto controllo in modo da liberarsi dalle dipendenze per le sostanze più pesanti. Luoghi dove gli si fornisce sostegno psicologico, gli si dà un rifugio sicuro e gli si offre una formazione professionale. A Vancouver, dove è stato aperto il primo centro con queste caratteristiche in Nordamerica, le morti per overdose di eroina sono diminuite del 35 per cento. In Svizzera, dove ce ne sono sparsi in tutto il paese, sono state ridotte della metà. Trattando i tossicodipendenti come essere umani che hanno una dignità invece che come falliti o criminali responsabili della loro stessa emarginazione, questi programmi hanno allontanato molte persone dall’orlo del precipizio indirizzandole verso una vita più produttiva. Ma per realizzare un progetto simile gli Stati Uniti dovrebbero prevedere la possibilità di fornire eroina ai tossicodipendenti e dirottare buona parte dei fondi investiti nella repressione, nei processi e nelle carceri verso un grande programma di riabilitazione. Il governo dovrebbe, in poche parole, mettere fine alla guerra alla droga. Ma siamo ancora molto lontani da un’ipotesi simile. […] Aspettiamo di vedere quante morti serviranno per convincere gli Stati Uniti ad abbandonare l’approccio proibizionista e a rispondere in modo appropriato.

Andrew Sullivan per il New York Magazine – pubblicato in Italia da Internazionale (che fa notare: giornalista conservatore e cattolico).

Ho scritto più volte della necessità di un approccio selettivo e qualitativo e non meramente moralistico e repressivo, dedicando un capitolo del libro sulla Cannabis (Fandango, 2016) al modello portoghese e alle ricerche scientifiche più avanzate. La politica, però, come negli Stati Uniti descritti da Sullivan, non se ne occupa. È come se si parlasse di qualcosa lontano da noi, come se la disperazione non la riguardasse. E come se tutto questo non comportasse un fiorire dell’economia criminale. E come se tutto questo non avesse a che fare con le trasformazioni imposte alla vita delle persone dai grandi processi economici in atto, in una grande transizione postindunstriale (di cui è protagonista in particolare l’automazione e riguarda soprattutto le aree rurali) che sta trasformando «un vecchio parco» in una «gabbia», scrive Sullivan, in una «diffusa sensazione d’insicurezza economica e di vuoto spirituale».

Se non si abbandona il proibizionismo e non cambiano le politiche, «il papavero vincerà sempre».

Nota metodologica: questo pezzo dimostra, ancora una volta, che occuparsi della diffusione degli stupefacenti e delle politiche per governarla non è parlare astrattamente di «diritti civili» da contrapporre, come vuole una certa retorica, alle «cose concrete»: la droga è intrinsecamente connessa al nostro sistema sociale e al nostro modello economico. E non è un caso che la politica non se ne occupi, perché la vera domanda è: di che cosa si occupa, esattamente, la politica, ai nostri giorni?

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