L’impressione costante mentre si discute con consiglieri del governo, direttori di think tank per la diffusione dell’e-governement, responsabili delle agenzie della cybersicurezza, entusiasti del digitale e anche scettici è che sia stato un percorso politico condiviso da tutti questi soggetti, al di là delle differenze e delle opinioni che ciascuno di loro può avere rispetto alle soluzioni individuate.

Qualcosa che attraversa i ministeri, le agenzie statali, le municipalità. Un flusso di idee, di consapevolezza e, insomma sì, di coscienza da cui nessuno si è voluto sottrarre. E che ha portato ai risultati che abbiamo descritto.

Si tratta di un «discorso» condiviso, pubblico, certo favorito dalla consuetudine del gruppo dirigente di un paese piccolo, in cui tutti coloro che guidano e governano si conoscono, potremmo dire, fin dall’università. E favorito anche da un approccio post-ideologico, inevitabile dopo un Novecento che qui ha lasciato troppe tracce di sé.

Ciò detto colpisce che si siano intesi (non solo e non tanto nel senso delle «larghe intese») e abbiano saputo creare un ambiente fertile per un progetto di società che prima non esisteva. Facendo letteralmente «di necessità, virtù», perché dopo il periodo sovietico c’era da ripensare tutto quanto. E non c’erano molti appigli a cui appoggiarsi: gli appigli bisognava inventarseli, ai margini dell’Europa. E ci voleva non solo qualcuno che lo dicesse, ma un sistema che si trasformasse.

Come nota Federico Plantera, che allo Showroom di E-Estonia ha lavorato a lungo, ciò può costituire anche un limite, di carattere retorico e quindi anche politico: parlare della società digitale può far dimenticare la dura vita «analogica», potremmo dire, a cominciare dalle disuguaglianze e dalle condizioni materiali delle persone. Qualcosa di molto tradizionale, poco cool e di tremendamente ostinato. Se prevale il marketing, anche i progetti migliori possono perdere sostanza. E anche il senso per cui sono stati inventati e avviati.

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