Porsi le domande giuste è ancora più importante di azzardare risposte, magari essendosi posti le domande sbagliate.

Non farsi domande, invece, è sicuro che alla lunga indebolisca e impoverisca un paese.

A proposito della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e della robotica, si tratta di domande e questioni politiche, non solo e non tanto tecnologiche: è meglio un algoritmo o un funzionario magari corrotto o forse inefficiente? E come controllare e verificare che l’algoritmo non sia a sua volta corrotto? È meglio che a fare lavori di routine sia un umano o una macchina? E come troviamo il reddito per quell’umano sostituito dalla macchina? E come si occuperà il tempo liberato (dal luddismo al ludismo, potremmo dire)? Qual è il punto di equilibrio tra trasparenza e privacy? Come fare in modo che i dati personali siano in nostro possesso e non siano acquisiti, senza nemmeno pagarli, da altri? Di chi è la responsabilità se il robot sbaglia e fa male a qualcuno (Asimov abita già tra noi)?

Domande che in Estonia qualcuno si pone. La domanda delle domande è: se la politica non si pone queste domande, come pensa di approcciare il futuro? E, con ciò, come pensa di dare un senso a se stessa e alle parole che usa – come «lavoro», «crescita», «riforma»?

Si parla molto di crisi della politica e della rappresentanza, ma se la politica non ha una strategia e a volte nemmeno un’opinione su questi grandi elementi di trasformazione della società, dei modi e dei rapporti di produzione, di che cosa si occupa, precisamente?

Se la politica non è autonoma e non ha capacità di programmazione e di regolamentazione di questi processi, che ruolo intende giocare nel mondo in cui viviamo e vivremo. E come pensa un paese di uscire dai guai, di ridurre le disuguaglianze, di creare benessere se assiste in modo passivo e in alcuni casi addirittura interessato a tutto questo?

Domande che è il caso di porsi, prima di perdere altri anni: che sono secoli, questi anni.

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