Evelina mi scrive una lettera che ha questo oggetto: «Per favore abolite il precariato. Vorrei tornare a lavorare in Italia, stavolta non pagata con i voucher».

Caro Civati,

la seguo da un po’, venni anche a sentirla a Bruxelles circa 3 anni fa (al tempo lavoravo lì, per un’azienda italiana, precarissima, proroghe di Co.Co.Pro di 3 mesi, per un totale di 2 anni, ovviamente con promesse di indeterminato mai realizzate).

Nel 2016 ho deciso di tornare in Italia, mi dicevo che con una laurea, un master, la conoscenza di 3 lingue straniere, un semestre negli Stati Uniti con una borsa di studio dell’UniBo, 3 anni di esperienza all’estero (uno in Sudamerica e due in Belgio), almeno un lavoro nel turismo l’avrei trovato.

Dopo aver superato un colloquio in 3 lingue straniere, l’ho trovato, per l’Ufficio Turistico del Comune di Roma. Ma per massimo 300 ore dato che la formula contrattuale erano i voucher. Ovviamente sono dovuta tornare a vivere con i miei. Non ho retto a questa situazione, appena mi è arrivata una proposta dall’estero, ho accettato.

Ora sono qui a Budapest da un anno, non faccio chissà quale lavoro specializzato (Servizio Clienti e Traduttrice da Inglese a Spagnolo), ho un indeterminato, trasporti ed assicurazione medica privata coperti dall’azienda, giorni festivi pagati il doppio se si decide di lavorare (non è mai obbligatorio), 35% extra all’ora se si lavora dopo le 18. Lo stipendio supera di poco i mille euro, ma mi permette di vivere dignitosamente e persino viaggiare.

A volte mi chiedo come sia possibile che io sia dovuta emigrare in Ungheria per avere il mio primo contratto a tempo indeterminato con tutte le tutele, e nonostante sia di carattere una persona che si rimbocca le maniche, mi viene spesso da piangere, perché non è giusto.

La mia famiglia mi dice sempre di resistere ancora un po’, ma io sono stanca.

La mia richiesta è nell’oggetto, quindi non la ripeto. Tra i miei 8 migliori amici dell’Università, solo una è rimasta in Italia e combatte precaria con la Buona Scuola. Il penultimo di noi ha lasciato l’Italia due mesi fa, una vittima del Jobs Act, assunto un anno prima e licenziato poi senza giusta causa assieme ad altre 18 persone da un’azienda assolutamente non in crisi (SkyBet). Bravissimo, è riuscito a trovare lavoro all’estero pochissimo tempo dopo. Un’altra di noi, ovviamente laureata con lode, su 10 domande di dottorato in Italia ed una alla ben più quotata University of Sydney, si trova chiaramente ora a fare ricerca in pianta stabile in Australia, dato che dal nostro Paese ha ricevuto solo porte in faccia.

Per favore, parlate di lavoro, a tappeto. Il mio voto lo ha già da ora ma vorrei che tanti altri si renderessero conto che la via non sono né i populismi, né i fascismi, né i partiti di destra come si è rivelato il Pd.

La ringrazio tanto per l’attenzione e per le sue battaglie.

Buon lavoro.

La lettera di Evelina è un monito e un programma, insieme. Ci ricorda che il problema non sono i personalismi, se non nel senso delle persone, della loro vita e delle conseguenze su di loro delle scelte della politica.

Noi rispondiamo con un «Manifesto» che dice «giusta paga e giusta causa», che propone investimenti sulla ricerca e sul sistema della formazione, che chiede investimenti nei settori fondamentali e strategici, a cominciare dalla conversione ecologica e non bonus lotteria che lasciano il tempo che trovano. Parliamo di progressività fiscale, di salario minimo legale, della riduzione delle forme contrattuali che hanno devastato il lavoro e legalizzato lo sfruttamento.

Chiederò a Evelina di scrivermi ancora e di tenermi e tenerci sotto controllo (democratico), per tutta la campagna elettorale e anche oltre. Perché ciò che lei ci chiede non si perda come lacrime nella pioggia, perché possa tornare in un paese più ricco, per tutti. In cui tutti possano stare bene. Un’Italia più ricca, anche di competenze e di persone come lei.

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