Insisto: la questione della ricerca pubblica precaria non è solo questione lavorativa e sindacale, è questione politica nazionale.

Lo è per mille ragioni: perché la ricerca non è un diversivo, è fondamentale per il riscatto del nostro paese.

Perché la precarietà, oltre a essere un grave problema per chi la vive, rende più fragili tutte le strutture istituzionali che si reggono sul lavoro precario, da anni e per anni, di centinaia, migliaia di persone.

La precarietà è nemica della programmazione, dell’accesso agli investimenti, della creazione di un vero e proprio habitat per la ricerca, quella accademica, quella privata, in un paese che invece dilapida tutto il proprio capitale, lasciando andare persone che ha fatto crescere, studiare, maturare.

Un paese si giudica da come tratta i propri ricercatori, che sono ricercati all’estero e negletti in Italia.

La retorica dell’innovazione si svuota, i tagli riguardano anche il ramo su cui siamo seduti, e ciò vale soprattutto per il governo che mortifica il lavoro degli enti dei propri ministeri.

Siamo arrivati al paradosso che un ministro non incontra i lavoratori dell’ente del ministero che guida, mentre un suo collega banalizza il lavoro del proprio, negandosi plasticamente al confronto.

Problemi di risorse in verità ‘distratte’ verso altre operazioni, nel senso della propaganda elettorale e della sciatta privatizzazione di tutto e di tutti.

E così via, citando Fraunhofer che non si faranno mai, senza riconoscere ciò che in Italia può assomigliarle e andrebbe valorizzato, illustrando i risultati raggiunti, riconoscendo il valore di chi opera con disciplina e onore per la Repubblica, attraverso la ricerca, che è un suo elemento qualificante, anche sotto il profilo costituzionale.

Oggi al convegno di Sinistra italiana a cui ho preso parte, Fabio Mussi faceva presente che in Italia si spendono, ogni anno, 90 miliardi per il gioco d’azzardo, quasi 20 per le pratiche magiche mentre ciò che è destinato all’università e la ricerca si ferma a 15. Questo lo «stato presente».

A ciò si aggiungono tattiche divisive che hanno «spostato il paradigma», come ha spiegato Fabrizio Bocchino, sostituendosi a una strategia unitaria, che sappia invece sostenere il lavoro di rete, la relazione tra le istituzioni, la condivisione degli elementi qualitativi del sistema, che così si frammenta e si perde.

La ricerca, lo ripeto da tempo, è la prima cosa: se vogliamo investire, se vogliamo diventare più consapevoli e più forti, se vogliamo affrontare la grande transizione matrioska.

Prima si finanzi quella, poi tutto il resto. Se vogliamo salvare l’Italia.

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