Ci sono varie ragioni per le quali è il caso che si faccia la benedetta unità delle forze progressiste che non intendono convergere con il Pd.

Sotto il profilo culturale, la miscela è un valore di arricchimento, per uscire dai tipici luoghi comuni e dai settarismi di cui è piena la storia della sinistra.

Sotto il profilo elettorale, è un motivo di necessaria e minima semplificazione. Nessuno si spiegherebbe perché persone che pensano e dicono più o meno le stesse cose non si presentino nella stessa lista, in un quadro politico già parecchio (e volutamente) confusionario.

Ma c’è soprattutto una ragione politica, fondamentale, e riguarda la grande transizione.

Perché intorno a noi, mentre Orlando orla il perimetro del Pd, il mondo cambia, ma noi no. Noi continuiamo con soluzioni vecchio stile, senza una prospettiva, senza la capacità di definire una visione della transizione.

Non mi riferisco al renzismo – quello semmai è un passaggio, da un governo all’altro – mi riferisco alla grande trasformazione che ci riguarda già e che ci riguarderà sempre di più.

Non mi riferisco nemmeno al trasformismo – quello in virtù del quale Alfano è ministro eterno e Verdini un partner – mi riferisco alla grande metamorfosi che molti sottovalutano perché le questioni sono più grandi di noi.

E però la politica se vuole restituire senso (prima di tutto a se stessa), si deve occupare proprio di questo, delle questioni reali, generali, planetarie e quindi vitali.

Sono questioni matrioska, una dentro l’altra.

La più grande è quella del cambiamento globale, che è una fossa delle Marianne: Marianne che devono essere rivoluzionarie, se non vogliamo inabissarci tutti quanti. Affrontarla significa dotarsi ipso facto di una nuova politica industriale, molteplice e diffusa, e dare lavoro a molti, risparmiando risorse che non abbiamo e che di solito ci procuriamo da fuori.

Subito dopo viene la guerra e le armi che contro la legge anche questo governo ha consentito venissero esportate a paesi in guerra, a sceicchi e dittatori (collegati al punto qui sopra circa la questione energetica), per interessi diretti di poteri fin troppo noti e riconoscibili.

Senza soluzione di continuità arriva l’immigrazione, la grande migrazione, che è la più plastica delle transizioni, che riguarda anche noi (e l’emigrazione italiana NON è determinata dall’immigrazione verso l’Italia, santocielo), e che sta cambiando il profilo dell’Europa: spaventati da una popolazione che non raggiunge, nemmeno nei momenti di ‘punta’, l’1% degli abitanti europei, stiamo distruggendo l’Europa e la sua Unione, con la funerea minaccia dei soldati al Brennero (tipo quindicidiciotto) e uno spettacolo finora desolante anche di chi si è presentato sulla scena del mondo come nuovo leader europeista, con bandiere, inno e tutto.

Poi ci sono i robot e l’automazione e i big data e l’intelligenza artificiale, che cambieranno il lavoro e la società: una transizione che conosciamo poco, e che per essere affrontata ha bisogno di altre due trasformazioni. Si deve puntare cioè al massimo di innovazione – per non essere tagliati fuori e subire nuove ‘dipendenze’ – e insieme al massimo delle garanzie, per evitare che il valore prodotto (“al posto” dei lavoratori, come ha spiegato Riccardo Staglianò) vada a pochi, pochissimi e sia, invece, distribuito. Per questo bisogna studiare una transizione intelligente sui salari (che devono avere un minimo legale, per tutti i lavoratori) e creare le condizioni per un reddito minimo sostenibile, a partire dal sistema dei servizi per il lavoro che lo rendono possibile.

L’intelligenza artificiale riguarda da tempo quelle transizioni che sono transazioni, c’è la questione della ricchezza nascosta, nella speculazione finanziaria e nei paradisi diffusi dappertutto, anche dentro la Ue, dove i ricchissimi trovano condizioni di favore. Gli altri, i moltissimi, si arrangino. Moltiplicando disuguaglianze, disagio e problemi per tutti, anche per chi ora si sente al riparo da certe ingiustizie.

Proiettiamo tutte le nostre ‘miserie’ politiche su questo piano. Cerchiamo di distinguere le opportunità dai pericoli, investiamo sulla ricerca, troviamo soluzioni che tengano in equilibrio concorrenza (verso il basso, accidenti, non verso le accumulazioni di capitale e di potere) e diritti (verso l’alto, che insieme alle retribuzioni sono già sprofondati).

Lavoriamo sulle piattaforme, non quelle petrolifere, che abbiamo di meglio da fare, ma sulle innovazioni che comportano servizi sociali e benessere che non conosciamo, e un nuovo orientamento della società nel suo complesso.

Questo è il programma, da cui dipendono le scelte minime per fronteggiare una crisi di sistema che il nostro paese conosce da tempo, nonostante la propaganda politica di questo o di quello faccia pensare a chissà quali miracoli.

Stiamo maluccio e potremo stare anche peggio e non possiamo stare qui a pettinare bambole-robot, ma preparare fin d’ora giorni migliori.

Solo se sapremo affrontare quelle questioni a quel livello le persone sentiranno la politica come necessaria e necessaria la partecipazione.

Solo se ci proveremo potremo dire di essere diversi e riconoscibili. Altrimenti sembreremmo solo una corrente, un orlo, una piega, di qualcosa che non convince più.

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