Nel post precedente scrivevo che – nell’ambito della transizione ecologica, ma non solo in quell’ambito – la politica deve valorizzare la ricerca e rendersi conto che è ricerca essa stessa.

So che può apparire bizzarro in un paese che (guarda caso) non ne parla mai ma il bilancio dello Stato dovrebbe cambiare radicalmente prospettiva: per prima cosa andrebbero determinate le spese per la ricerca e per la formazione di qualità, in cui ultimeggiamo (contrario di primeggiare) a livello europeo e tra i paesi più avanzati. Poi tutto il resto.

Ciò significa ad esempio trovare le risorse per valorizzare i precari di lunghissimo corso, a cominciare dagli istituti di ricerca pubblici, ministeriali, a servizio immediato della Repubblica: sia che si tratti di terremoti (come nel caso di Ingv) sia che si tratti di questioni alimentari (come nel caso del Crea), per fare due esempi molto attuali (mi riferisco al Madia).

Ciò significa avere una strategia del tipo Fraunhofer per mettere in comunicazione (e all’«opera») il mondo dell’impresa (piccola e media, soprattutto) con quello dell’accademia e della ricerca (della Fraunhofer parla Edoardo Nesi – discutendone con il babbo – nel suo ultimo libro con Guido Brera. Altre suggestioni si trovano in Dario Di Vico e Gianfranco Viesti, Cacciavite, robot e tablet). Non basta qualche milione di euro, non bastano nemmeno le defiscalizzazioni: serve una strategia e servono investimenti.

Ciò significa rinunciare ai bonus saltuari e parecchio elettorali (dal fiato cortissimo) a scelte molto immediate per dare respiro a un piano da programmare, quasi fosse un patto non solo tra noi, ma anche tra noi e le prossime generazioni (che non sono qualcosa di astratto, si tratta dei nostri figli e dei nostri nipoti). Un patto che sia anche una strategia, di lungo periodo, condivisa da tutti gli attori politici in campo perché non decada a ogni cambio di maggioranza. Quasi una piccola costituente dell’innovazione, del salto tecnologico e ambientale, ci vorrebbe. E ci vorrebbe una tenuta, nel corso degli anni, con obiettivi chiari e precisi.

Ciò significa affrontare questioni sconosciute o rimosse, come quelle collegate all’opzione digitale, all’automazione e all’intelligenza artificiale, per saperne cogliere opportunità e e sapere valutare le conseguenze dal punto di vista delle condizioni sociali di un gran numero di cittadini. Non mi si dica che finirà tutto bene, perché soprattutto in Italia non è affatto detto che sia vero, soprattutto se non facciamo nulla per attrezzarci: come sappiamo automazione e AI riguarderanno lavori «umili», ma non solo e metteranno in difficoltà soprattutto sistemi statici e fragili, come il nostro. La rivoluzione in corso soppianta l’intervento umano in modo ben più forte e decisivo di qualsiasi rivoluzione precedente e impone un’evoluzione che mal si coniuga con i nostri ritardi strutturali.

Ciò significa rendere il paese consapevole del rischio di diventare colonia (e lo è già, in parte) di grandi gruppi multinazionali (di cui nessuno è italiano e pochi sono europei) che disporranno dei big data per costruire (letteralmente) nuovi scenari economici e sociali. Una questione economica e già sociale che diventa democratica, oltretutto.

Ciò significa iniziare da ciò che già sappiamo, ovvero che avremmo tanto bisogno di individuare gli strumenti finanziari e amministrativi per avviare una potente transizione ecologica, per abbandonare fonti fossili (che non abbiamo) e abbracciare nuove modalità di produzione dell’energia, per un suo consumo efficiente e ‘misurato’. Dando lavoro a figure nuovissime e antiche, di alto profilo scientifico e di immediato intervento pratico.

Per tutto questo con Possibile ci stiamo attrezzando, sicuri che un programma elettorale debba partire da qui. E lo faremo con le intelligenze che ci sono già, ma che la politica ascolta poco o tiene a debita distanza, in un clima antiscientifico che si impone ogni giorno di più.

Ogni anno perduto aumenta in modo esponenziale i ritardi complessivi. Anche per restare fermi, per non perdere altre posizioni, dobbiamo muoverci, con una velocità doppia (per rimanere nella citazione) per poter andare avanti.

Tra robot, transizione ecologica e intelligenza artificiale ci vuole intelligenza politica. E sapere riconoscere le intelligenze e le competenze che già ci sono. E fare crescere quelle che verranno. All’insegna della mobilità sociale (nota bene), perché solo un paese in cui anche chi è svantaggiato può studiare ha qualche chance di recuperare il tempo perduto.

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