Ho già cercato di spiegare la tattica basata sull'illogica della campagna del sì: far saltare il principio di non-contraddizione proprio quando ci si trova di fronte a un «sì» e a un «no» è forte, se ci pensate.

Ce n'eravamo accorti già. Per esempio: c'è una clausola di supremazia dello Stato (del governo) sulle Regioni, per ragioni legate all'interesse nazionale. Solo che non si applica alle regioni a Statuto speciale: come se l'interesse nazionale non riguardasse la Sicilia o il Friuli. La nazione finisce a Treviso e sullo Stretto (altro che Ponte).

Negli stessi giorni in cui si celebra la democrazia partecipativa e si parla del referendum, il Pd attacca i pirla che come me si sono messi a raccogliere le firme sulla Scuola, festeggiando il mancato raggiungimento delle sottoscrizioni necessarie (tutto il fronte del sì ha raggiunto la soglia per 4.000 firme, però trova normale elevare a 800.000 la soglia per i referendum a cui sarà abbassato il quorum).

Un partito referendario, rispettoso della libera iniziativa degli elettori, non c'è che dire. Chissà come voteranno il 4 dicembre tutti quelli che hanno firmato i referendum sulla Scuola, e sul Lavoro. E magari anche quelli che hanno partecipato alla consultazione delle trivelle della passata primavera (quando il Capo – dopo aver sperperato 300 milioni per non accorparlo con le Amministrative – consigliava di disertare le urne)*.

Oppure ci sono gli elenchi delle competenze esclusive dello Stato e delle Regioni, solo che si sono dimenticati piccole cose come industria o agricoltura, che andrebbero così alle Regioni. Vogliono ricentralizzare tutto quanto e non sono nemmeno capaci.

Siamo al trasformismo di Leopoldo Fregoli applicato alla politica e alla logica stessa. Dopo il trasformismo della destra e della sinistra, dopo aver scambiato i programmi elettorali con la destra, eccoci al trasformismo degli stessi articoli della 'riforma', che cambiano ordine, posizione e significato nella notte, come voleva una famosa pagina di Borges.

In queste ultime ore va di moda il senatore non-elettivo e però elettivo, un assurdo incostituzionale che i sostenitori del sì stanno cercando di motivare sulla base di un testacoda per il quale la condizione fondamentale – che i senatori non fossero elettivi! -, condizione pasticciata nel corso della riforma in Parlamento, possa diventare il suo contrario.

Lo spiega magistralmente Andrea Pertici, sotto il profilo tecnico. Sotto il profilo politico, la spiegazione è ancora più semplice: siccome i cittadini preferiscono un Senato elettivo, preferiscono sapere chi li rappresenta e poterlo decidere (pensa che strano), i sostenitori del sì virano verso le ragioni del No.

Dopo avere sentito ripetere per anni che il senatore non poteva essere elettivo perché altrimenti avrebbe preteso di votare la fiducia (anche qui una classica inversione: sarebbe il contrario, piuttosto, perché un senatore non eletto non dovrebbe fare cose come partecipare alla riforma della Costitutizione), ora il senatore diventerebbe scelto dai cittadini. Perché, quindi, già che ci siamo non gli diamo anche la possibilità di votare la fiducia? A rigor di logica boschiva ciò dovrebbe accadere.

Non tutti i senatori, si badi: non i sindaci, non i nominati (per la serie «che ci faccio qui?») dal Presidente della Repubblica.

E così la riforma elettorale perfetta che ci invidiavano tutti, dalle steppe sarmatiche alle popolazioni indigene del Borneo, si può cambiare: il premio, il ballottaggio, i pluricandidati sono brutti a vedersi e a votarsi.

E così gli stessi «paletti» da cui si era partiti, presentati dal governo come paletti di frassino capaci di fronteggiare qualsiasi male, si possono temperare e spezzare.

E così il Sì era presente nel programma dell'Ulivo e anche in quello del Pdl e anche in quello del M5s. In tutti, contemporaneamente, in egual misura, all'unisono. Siamo al realismo magico, dove c'è una parola di troppo: realismo.

Alla fine di questa campagna il partito del governo chiederà di invertire «sì» e «no». E ovviamente voteranno «no» anche loro. Anche perché, seguendo i meandri di una riforma piena di confusione e di contraddizioni, si sono persi. E rischiano di perdere. #BastaunNo, giusto?

* I trecento milioni buttati via il 17 aprile 2016 avrebbero comportato il risparmio previsto dalla trasformazione del Senato (che vale circa 50 milioni) per una intera legislatura, anzi per 6 anni. Segnatelo.

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