Jacopo Tondelli ha scritto un pezzo che vale la pena di leggere. Soprattutto quando dice:

Crediamo che il paese avrebbe (avuto, e da tempo) bisogno di un po’ di ordine, di qualche scelta impopolare e con lo sguardo di lungo periodo, e di un’ottica premiante per chi lavora, rischia e investe. La direzione, tipica di ogni momento pre-elettorale, sembra invece purtroppo ancora quella opposta, e il “bonus” va dalle parti di chi più facilmente può essere capitalizzato in termini di voti. Una strategia che ha fatto già storcere la bocca e stropicciare gli occhi in Europa, dove una richiesta di nuova flessibilità è vista come fumo degli occhi più o meno sempre, e figurarsi se assume le solite forme della furbata all’italiana e senza le formalità che il contesto richiede. Del resto, sempre dalle nostre parti, non siamo mai stati teneri verso un fisco rapace, e una burocrazia invadente, costosa e nemica di chi prova a fare cose. Però il segnale lanciato con l’abolizione di Equitalia, facendo finta che siano con essa aboliti i debiti dei cittadini nei confronti dello stato, è quantomeno discutibile, in un paese che ancora una volta, proprio in questi giorni, conta in decine di miliardi l’assommare dell’evasione fiscale.

[…]

Delle riforme in questione sarebbe bello, e noi ci proveremo, discutere nel merito, non come di un’Apocalisse, ma di un riforma che cambia in meglio o in peggio gli assetti dello stato. Questo andrebbe ricordato sempre, e una volta di più, anche di fronte all’argomento che vuole l’Europa e il mondo intero – in particolare quelli della finanza e dei mercati – non aspettare altro che l’esito del referendum e addirittura – riferiscono alcuni report – equiparare il voto italiano di dicembre alla scelta epocale – quella sì – per il prossimo presidente degli Stati Uniti. Che davvero la nostra democrazia valga così poco da non potersi più confrontare serenamente sulle ragioni e i torti di una riforma è un pensiero inaccettabile, un ricatto cui non si può sottostare neanche un poco. L’argomento che la vittoria dei no, infine, spalancherebbe le porte al disordine e alla vittoria sicura di movimenti populisti è tanto fragile se solo si pensa che difficilmente al voto andranno più del 50% degli elettori, e ricondurre una grande e rinnovata forza del ciclo politico di Renzi o un suo crollo all’esito di un voto che appassiona davvero una sparuta minoranza di italiani pare davvero affrettato e superficiale.

Lo diciamo adesso, 48 giorni prima e lo ridiremo dopo: chiunque vinca, ai primi di dicembre, questo paese va ricostruito profondamente nei fondamenti che ci fanno stare insieme, nelle regole di rapporto tra chi lavora, produce e spende. Nelle regole di ingaggio di una classe dirigente. Tutti guai che non abbiamo affrontato finora, non sono guariti da soli, anzi, e una certa tendenza di breve respiro della nostra politica, ormai scollata radicalmente dalla rappresentanza degli interessi diffusi e dalla percezione di quelle che è o dovrebbe essere la sua base, ha anzi peggiorato il quadro. Vinca chi vinca, perda chi perda, si farà più chiaro il quadro (forse) di chi ha il pallino in mano nel palazzo. Nel paese, dove soffia un vento di rabbia e disillusione, anche di cattiveria e di un certo egoismo, per cambiare le cose e riportare l’Italia a guardare lontano, ci vuole ben altro che un monosillabo.

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