Gerusalemme Est, 2 Agosto 2014

Spesso i nostri interlocutori, sia israeliani, che palestinesi, fanno coincidere la fine del processo di pace con l’assassinio di Yitzhac Rabin il 4 Novembre del 1995. Come a dire che da allora le parti si sono messe su un piano inclinato che non prevede soste, prima del fondo.

La prova del “nove” sarebbe l’atteggiamento indulgente della Comunità internazionale verso l’espansione delle Colonie israeliane, nei territori occupati palestinesi. Al fondo del piano inclinato ci sarebbe la Grande Israele, comprendente l’intera Cisgiordania, vera posta in gioco di tutte le dinamiche militari e politiche. Gaza no: ben recintata e presidiata, potrebbe restare, giunti al fondo del piano inclinato, palestinese. Anzi: potrebbe essere tutto ciò che compone lo Stato palestinese.

Ecco perché la tregua unilaterale annunciata oggi da Israele non entusiasma. Intanto perché è subordinata alla realizzazione dell’obiettivo strategico dichiarato: la distruzione di tutti i tunnel. Ma soprattutto perché sembra una mossa degna del miglior Sun Tzu, per sottrarsi in tempo al confronto negoziale con la Comunità Internazionale e con l’Autorità palestinese: operazione terminata, tutti a casa, di cosa dovremmo parlarci?

Peccato, perché tutte le forze palestinesi (da Al Fatah, fino ad Hamas) hanno raggiunto il Cairo con una piattaforma programmatica unitaria. E sempre al Cairo si è recato anche il Presidente del Consiglio italiano, Renzi, nella veste di Presidente del semestre europeo, dicendo che il piano egiziano va sostenuto.

Cosa prevederebbe la piattaforma unitaria portata al Cairo dai palestinesi e in larga parte condivisa dall’Egitto? Tregua immediata ( e fin qui…); fine dell’assedio di Gaza, ovvero apertura dei valichi e dello spazio marittimo (e già qui…); costruzione di un porto (…); protezione internazionale dei confini (…); rilascio dei prigionieri (…). Meglio staccare la spina prima, insomma.

Gli incontri che abbiamo vissuto oggi sono cominciati e terminati a Gerusalemme Est, ma si sono svolti soprattutto a Ramallah, attuale capitale dello Stato palestinese, collocata nel cuore della Cisgiordania.

A Ramallah abbiamo discusso in tre successivi “round” con Nabil Shaat, responsabile esteri di Al Fatah e parlamentare, con Ziad Abu Amr, Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e infine con Mustafa Al Barghouti, parlamentare e fondatore del PNI party, Abdullah Abdullah e altri parlamentari. Ma il capo e la coda di questa teoria di incontri li abbiamo tenuti a Gerusalemme est con Israeliani DOC: Michel Warshasky, direttore Alternative Information Center e con Nurit Peled, Daphna Golan, Elik El Hanandei attivisti per la pace.

Tutti molto preoccupati di quanto il “piano” sia inclinato e conduca le parti verso il fondo, forse irreversibilmente: lo segnalano, oltre alla reticenza Occidentale nell’individuare le cause più profonde di questa tragedia a cielo aperto, anche la grave difficoltà nella quale si trova lo stesso Mondo Arabo dopo la stagione traumatica e contraddittoria della così detta “primavera araba” e la difficoltà di quella parte di società israeliana persuasa della necessità di convivere in pace, a ritrovare slancio e convinzione.

È possibile rimettere “in bolla” il piano, come direbbe un falegname? È possibile cioè riequilibrare la situazione e sfilarla da quello che ad oggi appare come un destino ineluttabile di violenza e ingiustizia?
Certo che è possibile.
Ma questa possibilità è a un bivio.

Da un lato la potente leva della convenienza: ovvero le cose in politica cambiano, non quando ci si accorge che sono cattive, ma quando ci si accorge che non sono più convenienti.

L’Israeliano Michel Warshasky ci raccontava di un dibattito pubblico che ebbe con un israeliano colono, che ad un certo punto gli disse: “Ma lei crede proprio che siamo stupidi? Crede davvero che tutte le ragioni che lei sta snocciolando sulla gravità dell’espansione delle colonie nei territori occupati, non le conosciamo? Il punto è un altro: noi non ci fermeremo, perché qualcuno ci dice che dobbiamo fermarci. Ci fermeremo quando qualcuno ci fermerà, fino a che questo non accade, noi andremo avanti”. La dura e semplice logica del potere. Nel Mondo a mono trazione USA, difficile che questo accadesse e difatti non è accaduto. Ma il Mondo sta cambiando, sta diventando multi polare, sono ormai una realtà nuove potenze continentali come la Russia, la Cina, l’India, il Sud Africa, il Brasile e non è detto che questo consorzio allargato di prime della classe, abbia la medesima agenda di priorità degli USA. La leva della convenienza, come si intuisce, è leva pragmatica, utilitaristica, all’occorrenza cinica: efficiente, ma poco edificante.
Dall’altro lato la leva idealistica della cultura: ovvero la capacità di riunire (ancora e di nuovo!) le forze che in tutto il Mondo operano per la conversione dell’immaginario esistenziale, persuase che uomini e donne possano costruire un destino comune su questa Terra migliore, rispetto a quello prospettato dall’interminabile guerra tra identità coloniali, ansiose di accaparrarsi roba, per poi passare il tempo a difenderla dal rischio che qualcuno gliela porti via. Ser Mais! Bisogna riprendersi il coraggio, fiaccato da tante batoste, di ripensare (ancora e di nuovo) il paradigma delle relazioni, perché il paradigma “coloniale”, comunque e ovunque declinato, è foriero di violenza e paura. Come per esempio, concretamente fanno i membri del Parent’s Circle: familiari di vittime palestinesi associati a familiari di vittime israeliane, insieme per chiedere rispetto e pace. Una scelta commovente e vera: una scelta dolorosa di disarmo e di fiducia nella possibilità che l’altro, anche se è tanto “altro” da evocare con la sua sola presenza la violenza più grande che posso aver subito, non lo è a tal punto da lasciarmi soltanto l’angoscioso desiderio di eliminarlo. È il cuore del messaggio che ci ha lasciato Vittorio Arrigoni, quel “Restiamo umani”. È la capacità di riprendere e riproporre il pensiero universalista di chi ha saputo cogliere nell’essere umano sempre e soltanto una manifestazione dell’essere, della vita, e quindi una comunione precedente e sovrastante qualunque artificiosa differenziazione, dovuta alle circostanze ambientali. È la capacità di interpretare su scala planetaria alcune sfide politiche che predispongano alla nonviolenza dei rapporti, fino ad arrivare per esempio, alla pubblicizzazione planetaria delle risorse fondamentali, a cominciare dall’acqua.

L’Europa ha smesso di farsi macelleria di se stessa, quando ha regolato l’accesso alle materie prime fondamentali: carbone e acciaio. Credo sia arrivato il momento di scrivere, anche attraverso l’ONU, una nuova stagione per mettere sotto controllo pubblico quei beni fondamentali per i quali ci stiamo già facendo e ci faremo sempre più la guerra, dall’acqua al metano. Allora fiorirà una speranza nuova anche per la Terra, madre di tutte le nostre storie. È lì che aspetta ed è come se ci chiedesse: quante vite distrutte avete ancora bisogno di vedere, prima di convincervi che non c’è niente di più ragionevole, della rivoluzione?

Davide Mattiello
Deputato, membro della delegazione Parlamentari per la Pace

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