Oggi nel primo giorno di primavera ci troviamo in mezzo a molte riforme: dei costi della politica e della burocrazia, del fisco, del mercato del lavoro, delle istituzioni.

Le prime due dovrebbero alleggerire i cittadini dai troppo pesanti fardelli che uno Stato sempre più distante – in cui il loro peso è sempre minore – ha imposto loro. Le altre hanno appunto lo scopo di poter far pesare di più i cittadini nelle scelte pubbliche, dopo avere restituito loro la dignità di lavoratori (perché è sul lavoro che – secondo la Costituzione – si basa la democrazia. E questo significa – in due parole – che ciascuno conta per ciò che fa, per il contributo che dà alla società e non per come è nato, come avveniva prima e purtroppo rischia di tornare ad essere, pericolosamente).

Il percorso di queste riforme parte oggi, purtroppo, con una grave ipoteca: quella della legge elettorale approvata dalla Camera la scorsa settimana. Quella da cui poi dipenderanno tutte le scelte pubbliche, tanto che pare susciti grande interesse presso le cancellerie europee. Ecco, non siamo partiti bene: abbiamo (anzi, hanno) votato una legge frutto di molti compromessi al ribasso e molto pasticciata (basti pensare che funziona solo per una delle due Camere), che ancora una volta allontana gli elettori dalla possibilità di scegliere (niente collegi uninominali, niente preferenze, niente primarie), sacrifica – spesso inutilmente – milioni di voti (con soglie di sbarramento molto alte) e protegge i soliti noti (con le candidature in più collegi, la mancanza di norme sulla rappresentanza di genere e di qualunque misura preventiva rispetto ai conflitti di interessi).

Ora non si sa se questa legge sarà modificata – anzi, migliorata – dal Senato. In molti lo sperano. Noi moltissimo. E però quel Senato da cui adesso ci aspettiamo grandi miglioramenti sulla legge elettorale, nel disegno del Governo – e degli alleati del centrodestra (soprattutto di quello vecchio) – dovrebbe diventare una Camera (anzi, una cameretta) secondaria, composta da amministratori locali – che come dice Walter Tocci – finirebbero per essere portatori di interessi molto particolari, contro la possibilità di far valere l’interesse generale – della nazione, secondo il dettato costituzionale – e quindi di far pesare gli elettori (che poi conterebbero ancora meno se un’altra importante quota di senatori fosse di nomina presidenziale). Allora – come ormai diciamo da tempo – non sarebbe meglio ridurre tutti i parlamentari – senatori e deputati (che seicentotrenta sono certamente troppi) – ma fare in modo che sia gli uni che gli altri siano gli elettori a selezionarli, come la democrazia impone, secondo una legge elettorale davvero in grado di dare loro voce? Perché dare sempre l’impressione di temere, in fondo, il voto popolare?
Ecco, e qui veniamo ad un terzo aspetto: le Province. Si discute di eliminarle da ormai oltre due anni. Il Governo Monti, sostenendo la necessità e l’urgenza, le aveva fortemente ridimensionate addirittura con un decreto-legge. Il risultato è stato che la Corte costituzionale ha dovuto annullarlo, perché non era lo strumento adatto, a conferma del fatto che molte volte le scorciatoie (meglio, quelle che sembrano tali) portano a girare a vuoto e fanno perdere tempo.

Se si fosse avviato un serio percorso di riforma costituzionale su questo punto probabilmente esso sarebbe già giunto a termine e non saremmo in mezzo a questo pasticcio. Perché anche sulla riforma delle Province, per ora l’unico effetto che abbiamo prodotto è quello di togliere il voto ai cittadini. Queste infatti rimangono in piedi – pari pari – ma non si vota più! E la notizia in base alla quale – intanto che la riforma prosegue il suo percorso parlamentare – i Presidenti in carica sarebbero nominati (dal Governo) commissari non risponde certamente all’idea di far pesare di più i cittadini, ma al suo contrario. Se abbiamo ancora un ente politico intermedio, allora devono essere gli elettori a dire chi lo governa.
Ecco, di riforme abbiamo bisogno. Ma solo di quelle che ridiano ai cittadini la dignità di lavoratori partecipi delle decisioni pubbliche, anzitutto potendo incidere con il loro voto. Di altre, che hanno più il sapore della restaurazione, non c’è invece proprio nessuna necessità. Ma la primavera è iniziata oggi e può essere impiegata bene. Meglio di come si sia concluso l’inverno, se saremo più consapevoli di quello che proponiamo.

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