Quel «romanzo di poca cosa» (cit.) l’ho scritto otto anni fa. Ero in vacanza a Bilbao, una città in cui il calcio è qualcosa di più, che non si può spiegare in due parole. A casa di Iñigo. Un caro amico, che vedo troppo poco e che, a dirla tutta, mi manca parecchio.

Era l’anno del mio personale trasferimento a Barcellona (non al Barcellona, andavo solo a studiare, anche se il dipartimento di filosofia era a due passi dal Camp Nou, e la sera ogni tanto si incrociavano tifoserie e studiosi).

Era un anno di passaggio, in cui ero alla ricerca di me stesso, guarda un po’ (e non mi sono mica trovato, per la cronaca, anche se Barcellona è un posto dove è bello ritrovarsi).

Poi ne sono successe tante, in questi anni. E come in quel piccolo libro, le sconfitte e le vittorie si alternavano. E, a volte, come lo scudetto lacrimoso di oggi, si sovrapponevano.

La Juventus ha vinto ancora il titolo di campione d’Italia, che sembrava un’abitudine, e ne ha persi due, nello stesso tempo.

L’Italia ha vinto un mondiale, con la rincorsa di Alex, quella sera, che uno non ci crede a quel gol lì.

Poi c’è stata la B. Alex ci è andato, perché era giusto andarci. E ci sono andato anch’io, ed ero allo stadio quando abbiamo rischiato di perdere con l’Albinoleffe, per dire.

Alex è stato capocannoniere. E poi è stato capocannoniere anche al ritorno in A, suo e della Juventus. Come a nessun altro era mai capitato. E per la Juve ha giocato e segnato come nessun altro. E «come nessun altro», scriveranno in tanti, domani, per trovare un titolo da dare alla giornata e a una stagione lunga vent’anni.

L’ho dedicato a mio fratello, quel libro da ragazzo. Ken Loach, si magna licet componere parvis, ha fatto operazione analoga, benché la storia fosse parecchio più tormentata, con un film dedicato a un calciatore talentuoso ma molto diverso (e più tormentato, appunto): il parallelismo si raddoppia, quindi, e non si risolve. Come non si risolveva in quel racconto. Che aveva un finale aperto, come un tiro a rientrare, che devi aspettare la fine per sapere se la palla va in rete. O solo sul fondo.

C’è da dire che Alex è durato una generazione intera. Che è la nostra. E non è questione di calcio. O, almeno, non solo di quello. Ma mentre penso a tutto questo, e Alex alza la coppa, “a gamba tesa” interviene un altro Alex, con cui ho condiviso questo scudetto, oggi pomeriggio, che mi dice che è giusto così. Che ci sono stati Platini, quand’eravamo bambini, e Baggio, quando eravamo ragazzini. E poi ci sarà qualcun altro. E tutto andrà avanti, come sempre. Senza l’ossessione per le stelle da appuntarsi alla maglietta, ma con lo sguardo al bel gioco che riempie le domeniche e le serate. Magari a cominciare dalla prossima, dice Alex. E dagli Europei, alle porte. Che ce la vediamo con la Germania, come al solito.

La verità, però, è che la linea d’ombra è stata superata. Come la linea di porta, e con un tiro di Alex, anche oggi.

Un tiro che si è infilato, vicino al piano più lontano, come millemila altri, che ne abbiamo perso il conto.

Una linea che non si vede, ma che è dentro tanti di noi. Che non abbiamo fatto nulla, ma abbiamo seguito Alex come il protagonista del mio piccolo libro. E gli dobbiamo solo dire grazie. E che ci mancherà, come una sera d’estate, quando non pensi a niente, e non vuoi più tornare a casa.

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