Lo scrive, oggi, su Facebook Arianna Ciccone, motore mobilissimo della «protesta che è proposta», da Perugia, dove raccoglie firme per il referendum contro il Porcellum, per ritornare al Mattarellum e per riaprire il dibattito sulla legge elettorale italiana, che ha reso i parlamentari civibus soluti. Al di là del latinorum, una delle sfide più importanti per la democrazia italiana: la riforma della legge elettorale, per superare il Parlamento dove l'unica fiducia che corre è quella tra chi nomina e chi è nominato. Escludendo tutti gli altri o quasi.

Le persone fanno la coda, in tutta Italia, c'è un clima da primarie, quasi che le piazze di questa primavera si fossero allineate, ridistribuendosi in linee concentriche. Verso il cuore della politica. Era già successo con i referendum sull'acqua e sul nucleare e sul legittimo impedimento, è successo con i ballottaggi delle amministrative. Succede ancora, per i referendum più politici che ci siano, che portano con sé anche un'urgenza: quella di cambiare governo e di andare a votare per qualcosa di diverso.

Una campagna dal basso, con una disorganizzazione monumentale, con i moduli in ritardo e solo un mese per raccogliere le firme, perché i primi due sono volati via, tra schermaglie e vacanze. E incertezze sesquipedali. Grassroots, dicono gli americani, e a filo d'erba si fa più fatica, ma ci si appassiona ancora di più. Anche perché il clima è cambiato, non siamo più nelle condizioni del precedente tentativo refedendario per la riforma elettorale, di cui conservo un vivido ricordo: un Mario Segni solitario in una piazza San Babila assolata e politicamente depressa.

Si sente risuonare quella canzone, a cui l'anno scorso dedicai il mio viaggio attraverso l'Italia (che chiamai Quando cambia il tempo), che dice così:

Se provi a aprire la finestra, Capatàz, e coi tuoi occhi guardi fuori, quante persone che non contano e invece contano e ci stanno contando già.

«Stanno soltando aspettando un segno», prosegue De Gregori. Un segno non populista, non violento, né strumentale. Un segno che è un'idea di Paese, basata sulla rappresentanza e sulla qualità della proposta per gli anni a venire. E su una classe dirigente rinnovata e diversa. Non geneticamente, ma politicamente e culturalmente. Nella vita quotidiana, però, e non solo nelle dichiarazioni di ogni giorno. Una questione politica, non (solo) morale.

Arianna ci mette in guardia dall'informazione strumentale, anche quando proviene dal nostro campo. E punta il dito su chi in questi anni ha sottovalutato la questione, che invece è necessaria alla democrazia e sufficiente per devastarla. Per rendere tutto più impreciso, più superficiale, più interessato. Anche quando (anzi, soprattutto quando) le battaglie sono le nostre, non solo quando sono i luoghi comuni altrui. Perché bisogna avere diligente cura del messaggio e della parola pubblica. Delle cose da fare e del come, queste cose, si dicono. E del modo migliore per trasmetterle, per evitare che siano fraintese o rovesciate.

Valigia Blu, l'associazione che prende il nome dalla valigia (sì, la valigia esiste, ed è blu) con cui Arianna consegnò le migliaia di firme all'ineffabile direttore del Tg1, qualche mese fa, ha usato il web e ne ha promosso le virtù relazionali, la forza della condivisione, il formidabile passaparola che supera di slancio i sospetti che tutto si risolva con l'attivismo del click. Perché poi l'attivismo, quando è fondato e organizzato, esce dal pc e si riversa nelle piazze e nelle urne. Come scrive Alessandro Lanni:

Le ultime campagne, elettorali e referendarie, hanno dato un segno di un cambiamento che ha visto il web, i social network, l’internet inteso come ambiente di informazione e relazioni, uscire dai monitor e dai computer per costruirsi un posto nella società, nella realtà, dentro l’opinione pubblica e contribuire ad una evoluzione delle logiche della partecipazione alla vita politica. Anche in Italia. «L’anno scorso si parlava di clicktivism per indicare il comportamento degli utilizzatori più assidui dei social network», spiega Michele Sorice, esperto di comunicazione politica e direttore del Centre for Media and Communication Studies alla Luiss. «Era una partecipazione che si limitava all’accesso, a segnalare il proprio gradimento su un contenuto che emergeva su Facebook o su Twitter, utilizzate come reti di partecipazione vicaria».

Il problema è come trasformare un click in un voto e in un banchetto. In una organizzazione politica e in una cultura organizzativa, soprattutto, che dimentichi le piramidi delle gerarchie, per frequentare le linee orizzontali del confronto e della partecipazione. E che attraverso di esse trovi la strada alla decisione e al governo. Come accade con le primarie, quando sono vere e serie. Come accade in un partito che punta tutto sul popolo. Che sceglie il leader, sulla base di ragioni politiche, di un consenso il più possibile informato, nella correttezza dei comportamenti e nel rispetto delle regole.

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