l secondo post da Washington, che trovate anche sul Post (appunto).
Si parla di cultura, tra accademici e think tank, lungo la K Street (quella delle lobby) e viene fuori la metafora dell'iceberg. Facile, direte voi. E invece no. Perché qui a Washington non l'hanno letto, ma c'è un libro, Questo è il paese che non amo, di Antonio Pascale (Minimum Fax), che ci spiega perché la punta dell'iceberg, l'episodio, il gossip e la polemica stanno devastando il nostro paese (e lo stanno facendo affondare, proprio come il Titanic in versione battello ebbro: ve l'avevo detto che l'iceberg c'entrava).
Insomma, al di là e forse al di sotto delle scelte elettorali e politiche di ciascuno, c'è un substrato, in profondità, che pesa parecchio sulla formazione del consenso politico. Il meraviglioso mondo del prepolitico, dove allignano i modi di pensare e di vivere, le credenze, le tradizioni (che cambiano, per altro, come forse dovremmo spiegare ai politici italiani). E, ancora, al di là della polemica politica, forse l'Italia dovrebbe pensare a che cosa vuole essere, a qual è la sua missione.
Qui negli States la Ue non è granché considerata dagli strateghi, preoccupati piuttosto dal Medio Oriente e dalla Cina, soprattutto, e incuriositi al massimo dagli altri Paesi dell'acronimo Bric. L'Italia, in questo scenario, scompare. A meno che non si metta a fare il contrario di quello che ha fatto negli ultimi anni, pensando a se stessa attraverso il cambiamento profondo della sua composizione sociale e l'influenza determinata dalla presenza di altre culture e, ancora, la voglia di costruirsi un'identità non storiografica che guardi al mondo di oggi (e un po' meno ai celti, come accade dalle mie parti, perché i Celtics sono quelli di Boston…).
Un'Italia che si ricordi di essere in Europa (e la vicenda della Grecia glielo sta ricordando drammaticamente) e si decida a guardare al Mediterraneo e ai paesi (e ai mercati) emergenti. Tutti Paesi che rischiano, altrimenti, di sommergerci, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto: perché noi la via dello sviluppo la stiamo percorrendo, ma al rovescio.
Il nostro amico del think tank lamenta che nessuno parli più, negli Usa, di politica estera, né i giornali, né le maledette televisioni. In Italia, in compenso, non ne parla nessuno, anche perché, dopo aver abolito la politica estera, abbiamo abolito anche il mondo (non a caso, la geografia non pare più essere materia da curriculum scolastico, diventerà un hobby). E tutto ci piove addosso come se fosse una congiura (comunista, s'intende) o una calamità: la crisi, l'immigrazione, le scelte delle multinazionali, le difficoltà in campo energetico, anche il caro-benzina. Eppure la facciamo tutte le mattine, la benzina. Già.

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