Dicevo che avrei provveduto a completare il quadro su Vicky Cristina Barcelona. Per prima cosa, dirò che «Penélope è Woody Allen», come se fosse uno status di Facebook. Un Woody Allen certamente esasperato, caricato di passione in ogni senso e direzione (e, perciò, erotico come nessun’altra creatura abbia mai messo piede sulla terra). E, dopo aver registrato che il punto più debole del film è lo spottone da pro loco che Allen dedica alla città catalana, devo ammettere che, oltre a quello che ha scritto magistralmente Mattia, ho poco da aggiungere, dal punto di vista dell’analisi cinematografica. Il ‘mai’ riguardava un altro piano, e facendo finta che non mi legga nessuno, dirò, prima di tutto a me stesso, che, quanto a status, «Io sono Vicky», perché da quella città e, soprattutto, dalla speranza di vita che portava con sé me ne sono andato troppo presto. E con il magone. E ne ho sofferto, e ne soffro ancora. E non sto parlando di amore (o di figa, come penseranno tutti). Sto pensando alla vita che vorremmo fare, e a quella cosa che chiamano felicità. Che mi sembra di averla lasciata lì, che forse mi è caduta mentre passeggiavo sulla Rambla de Catalunya, o forse tra un libro e l’altro della biblioteca universitaria, oppure, no, ecco, devo averla dimenticata in un locale, qualche minuto prima che albeggiasse, al Raval, dopo l’ennesimo bicchiere. L’aria era diversa. Niente di ‘personale’: l’avete provato tutti. E forse la soluzione sta nel consiglio della canzone del film: «no puedes seguir inventando, que el mundo sea otra cosa y volar como mariposa». Certe cose, canta Giulia con los Tellarini, si possono vivere solo nella distanza. Appunto.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti