Aldo Bonomi lo conosco da tanti anni, da quando ho iniziato a fare politica: nel 1998, coordinati da lui e da Ferruccio Capelli, indagammo la "città arcipelago" che Milano rappresentava allora (e oggi ancor di più, in una deriva oceanica, potremmo dire). Ho letto molte cose che ha scritto, l’ho ascoltato in più occasioni e in molte altre l’ho atteso invano (l’uomo è tanto talentuoso quanto bidonaro). Il suo ultimo libro, di forte impatto, si intitola Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, è pubblicato da Feltrinelli e in 150 pagine offre una presa di posizione molto limpida sulle questioni che riguardano la nostra porzione di Paese. La crisi della rappresentanza, la riscoperta della comunità, l’approccio lobal (che fa segno alla faccia local del global), la ripresa della fraternité, come antidoto alla frammentazione, una riflessione sul ruolo della politica (quello che le si chiede è mettersi in mezzo tra i flussi e i luoghi, per dirla in linguaggio bonomiano). Il territorio, da una parte, i flussi della globalizzazione, dall’altro, che Bonomi indaga sulla base degli studi propri e di quelli altrui (protagonista, senza dubbio, Ulrich Beck, uno degli autori che affascinano di più anche me) e attraverso le testimonianze di un Nord che cambia profondamente e che continua a farlo a dispetto delle classificazioni troppo rigide perché troppo tradizionali. La chiave di lettura del libro, per me, è la seguente: Attenzione, c’è qualcosa di malato che avanza nel conflitto flussi-luoghi, e se non si prova a governare questi conflitti, abbiamo già visto cosa accade: le comunità, i luoghi, si fanno maledetti, producono rancore, "sangue e suolo". Cerchiamo di tenerlo presente, mentre riflettiamo su di noi e sul Nord.

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