«Quando mi trovo in un villaggio dell’Etiopia, vengo rincorso da un gruppo di bambini che mi additano divertiti, gridando: Ferenci! Ferenci! che vuol dire appunto “quello di fuori”, l’estraneo. Per loro l’altro sono io». Non è capitato solo a Kapuscinski (L’altro, Feltrinelli), un episodio simile. E’ capitato a me – ed è uno dei ricordi più belli dell’Africa – e Mario Agostinelli mi ha raccontato che, nel Mali, un bambino ti viene incontro all’ingresso del villaggio, ti prende la mano e ti accompagna a visitarlo. Ed è una lettura importante per chi fa politica, ma in generale per chi vive nella nostra società, la lettura del libro del reporter recentemente scomparso. Perché ci ricorda la filosofia del dialogo e dell’incontro che porta, attraverso l’esperienza dell’altro, alla costruzione del soggetto, attraverso un racconto che si sviluppa in giro per questo mondo in cui siamo insieme così vicini e così lontani. Da Erodoto alle sue personali peregrinazioni, in un racconto magistrale e insieme molto leggero della possibilità che l’altro sia considerato una ricchezza, non l’ultimo, ma il primo dei nostri punti di riferimento. Con una citazione finale strepitosa, che viene da Conrad e che riporto in parte perché ne abbiamo bisogno, perché ci fa ritornare «alla sottile ma insopprimibile certezza della solidarietà che unisce la solitudine di infiniti cuori umani, all’identità di sogni. gioie, dolori, aspirazioni, illusioni, speranze e paure che lega l’uomo all’uomo e accomuna l’intera umanità: i morti ai vivi e i vivi agli ancora non nati».

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