Lo so, è lungo, ma quando Sippor scrive, son sempre capolavori. Eccovi la sua ultima, irresistibile riflessione sul luogocomunismo più gettonato degli ultimi tempi:

“Il DNA si trova nel nucleo di tutte le cellule mature (la sola eccezione è per i globuli rossi circolanti nel sangue che non hanno un nucleo) ed è rappresentato da una lunghissima catena a doppia elica che risulta attorcigliata su se stessa formando una spirale (una specie di scala a chiocciola)”.
Questa faccenda delle rivendicazioni genetiche, onestamente, non la capisco.
Eppure l’espressione “avere nel dna” sembra essersi diffusa come un virus influenzale tra gli addetti stampa dei politici italiani, a cominciare da quelli, e sono tanti, che negli ultimi mesi hanno avuto qualcosa da dichiarare in merito all’embrione più strattonato ed ecografato d’Italia, quello del Partito Democratico.
Fassino, 27 marzo: “E’ nel dna del Pd essere un grande partito del lavoro”
Turco, 20 aprile: “Il Pd è socialista perché questo è nel suo dna”
Fioroni, 21 aprile: “La laicità è nel dna dei cattolici popolari e democratici”
Filippeschi, 24 aprile: “Il Pd ha nel suo dna la lotta contro la frammentazione dei partiti”
Pollastrini, 13 maggio: “Il Pd dovrà avere nel suo dna il valore della laicità”
Epifani, 27 marzo: “Sta nel dna del riformismo rappresentare e tutelare il mondo del lavoro”
Ma l’infelice espressione, che rimanda a una sorta di condanna genetica più che a una passione del sangue, a una convinzione del pensiero o a una disposizione dell’anima, sembra spopolare a 360 gradi, una vera e propria epidemia del linguaggio:
Mastella, 2 maggio: “Da sempre siamo impegnati nella promozione di politiche per le famiglie. Si tratta di valori che rappresentano il dna del nostro partito”
Padre Sorge, 27 aprile: “Per i cattolici è questione di vita o di morte perché certi valori fanno parte del loro dna”
Speroni, 26 aprile: “Non siamo nati geneticamente legati a questo o quest’altro, siamo liberi di cambiare le alleanze proprio perché nel nostro dna non c’è un’alleanza di qua o di la”
Falcer, 15 aprile: “L’Udc è un grande partito di centro, ha nel suo dna la storia della Democrazia Cristiana”
Casini, 15 aprile: “Nel nostro dna non c’è l’antiamericanismo”
Berlusconi, 25 marzo: “E’ nel dna della sinsitra la voglia di eliminare l’avversario politico non con gli strumenti della democrazia ma per via giudiziaria”
Menomale che qualcuno usa questa locuzione al di fuori di un luogo serio come dovrebbe essere quello dell’arena politica nazionale. Fa sorridere Montezemolo (5 aprile) che afferma come “La 500 è nel dna del Marchio Fiat” e Ancelotti (16 aprile) che rivendica come “L’obiettivo del Milan è sempre vincere la Champions, fa parte del dna di questa società”. O qualcun altro che al contrario restituisce peso alle parole, come il buon Amato che, con un’impostazione difensiva condivisibilie, ci ricorda come “La mafia non è una malattia genetica. Sono siciliano e se c’è una cosa che trovo intollerabile è che si pensi che ho nel dna dei geni mafiosi” (28 aprile).
Sarà che il test del dna è sempre associato ad attività investigative che presuppongono un qualche reato, che sia il mancato riconscimento di un figlio naturale o l’individuazione di un assassino, trovo quest’espressione davvero sgradevole e inviterei i politici italiani a liberarsene al più presto possibile, tornando magari a riferirsi alla memoria, alle radici, all’anima e al cuore che più umani e più rassicuranti appaiono, almeno ai miei occhi (castani, ma non so e non mi interessa sapere per via di quale cromosoma).
Nel frattempo, con un tempismo quasi ironico rispetto alla fissazione per il dna espressa dai nostri politici, il leader libico Gheddafi ha proposto al Governo di analizzare il dna di tutti gli italiani per poter conoscere quali e quanti siano i figli dei libici esiliati. Gli è stato risposto che l’operazione sarebbe un po’troppo complessa e che anche la risposta del test del dna rimarrebbe, per una certa percentuale probabilistica. Ah, bé.
Concludo con l’unica agenzia di stampa del 26 febbraio scorso davvero degna di nota, in questa mia ricerca sulla parola “dna”, che restitusce qualche speranza all’uomo, e un suggerimento all’homo politicus: si parla di un libro da poco uscito per Laterza “In carne ed ossa: dna, cibo e culture dell’uomo preistorico”. Gianfranco Biondi, antropologo dell’università dell’Aquila e coautore del primo capitolo spiega: “L’idea di un’unica linea evolutiva dalle scimmie antropomorfe all’uomo come lo conosciamo oggi è sbagliata. Oggi sappiamo che le specie non si sono succedute le une alle altre ma che alle nostre spalle c’è un vero e proprio cespuglio evolutivo in cui le specie diverse hanno convissuto fianco a fianco”. I nuovi studi – prosegue l’agenzia – suggeriscono anche un motivo per cui solo la nostra specie è riuscita a sopravvivere: “La base di tutto potrebbe essere la comunicazione – spiega Fabio Martini, docente di Paleontologia all’università di Firenze – il Sapiens è stato l’unico a perfezionare un linguaggio grafico comune sotto forma di graffiti, che a noi sembrano artistici ma in realtà avevano scopi didattici precisi. Persino gli ornamenti, introdotti sempre nella nostra specie, in realtà erano un modo per introdurre messaggi tramite il corpo. Questa abilità nella comunicazione potrebbe essere stata la chiave vincente”. Con buona pace degli acidi desossiribonucleici.

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