Genova, le porte del Teatro della Tosse – nomen omen – si aprono per la presentazione di un libro, con un giornalista e un attore di fama.

I posti sono contati, c’è un massimo, ci spiegano, ci sono protocolli rigidissimi. Fuori piove che diolamanda.

L’emozione coinvolge tutti, per le parole dei relatori, certo, per le analisi del giornalista sul G8 di vent’anni fa, per le divagazioni dell’attore, maestro di color che sanno e ne hanno viste tante.

C’è però una ragione in più, credo di poter dire, in questa sensazione, che tutte e tutti sembrano condividere.

Che sembra passato un secolo, dall’ultima volta, perché è passato un secolo, ma in verità la cosa immediatamente si rovescia nel suo contrario.

Sotto quelle luci, di fronte a quelle persone a scacchi, era come se non fosse successo niente e ve lo dice uno che ha conosciuto lutti, dolori, solitudini, angosce molto dure. Ma era come se fosse un lontano ricordo, come se tutto cominciasse di nuovo da dove ci eravamo lasciati.

Un intermezzo, un intervallo, una sospensione, di un anno. E passa. Come se non fosse successo nulla.

Intendiamoci, non sto sostenendo che non sia successo nulla, mentre lo scrivo ricordo — meglio, sento – le immagini pubbliche e private di un anno che non esiterei a definire di merda totale.

Ma è come se parlando da quel palco, incontrando a debita distanza le persone, fermandosi a parlare con loro, tutto apparisse come quella sensazione che ti danno i déjà-vu, come se il 2020 – inteso in senso estensivo – non fosse mai esistito. Un anno perso, come se fosse saltato. Bisesto e prolungato non di un solo giorno, ma di qualche mese. E funesto. Comunque, un’eccezione. Come quando i nostri padri ti raccontavano: «quell’anno ero a militare». Rimozione? Certo.

Però forse dobbiamo imparare a viverla così, questa stagione. Come se tutto riprendesse da dove si è fermato il tempo, tra limiti orari e geografici, chiusure e clausure, claustrofobie e perdite. Di senso.

Ci torneremo tra qualche tempo, se tutto andrà come speriamo. Però non pensiamoci più, almeno per un po’. Perché il vaccino più potente, sotto il profilo psicologico, è quello di allontanare da sé l’anno della marmotta, delle giornate in cui le bombe delle sei chiudevano il giorno, dei “coprifuoco” e del generale, delle astrusità e della retorica vacua e inconsistente.

Si parte, insomma, con cautela, certo. Con responsabilità che speriamo sia diffusa a ogni latitudine. Però si torna a dove eravamo rimasti. Si stava meglio quando si stava meglio. E l’ovvietà è l’unico modo per affrontare una cosa enorme e inspiegabile, per come l’abbiamo vissuta. In due momenti, peraltro, e il secondo è stato, per molte ragioni, peggiore del primo.

Non sarà difficile recuperare il tempo perduto, che magari perdevamo anche “prima”, se ne avremo voglia e se ce la sentiremo. E, ne sono certo, ce la sentiremo.

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