Lo scrivevo giorni fa: non è iniziata con la pandemia la stagione dell’oblio della cultura nel nostro Paese. Della cultura e di chi lavora nella cultura, nello spettacolo, nell’arte.

Tempo fa avevo ripreso il video, oggi vi propongo la trascrizione dell’intervento di Fabrizio Gifuni a una convention del Pd di millemila anni fa. Era il 16 giugno 2010.

Eccolo.

Buongiorno a tutti,

io non mi vergogno a dire che il sentimento che più assomiglia a quello che sento in questo momento nei confronti di questo Paese è la paura.
Non mi vergogno a dirlo, anche se mi fa male, ma poi penso a una bellissima intervista di Giovanni Falcone, a cui una giornalista chiedeva se avesse paura, e lui sapeva che cosa era la paura, e lui con il suo sorriso di indicibile struggimento diceva «certo che ho paura, solo gli incoscienti non hanno paura».
Ho paura di vivere in questo Paese perché sono tempi bui, opachi e molto, molto pericolosi. Molto, molto pericolosi.
Sono tempi pericolosi perché il genocidio culturale di cui parlava Pasolini quarant’anni fa è compiuto. Siamo in un’epoca di post-genocidio culturale. Adesso tutti capiamo un po’ meglio cosa voleva dire Pasolini quando parlava da solo nel deserto e quando diceva che l’uso strumentale della televisione sarebbe stata la clava del nuovo potere fascista che sarebbe molto più violento e totalitario di quello che questo Paese ha conosciuto durante il Ventennio.
Perché non ci sono più divise da buffoni da indossare, ma quelle divise da buffoni si potevano togliere, la sera, mentre le divise messe nell’anima non si tolgono più.
Sono tempi bui, opachi e pericolosi di cui avere paura perché la distruzione della memoria storica è stata una degli obiettivi più pervicacemente perseguiti negli ultimi vent’anni in questo Paese. Perché distruggere la memoria ha due obiettivi: tutto è uguale a tutto e che ogni giorno si può fare quello che si vuole, perché non c’è memoria. […]
Ogni giorno ho la sensazione che topi solerti lavorino nelle cantine per trascinare questo Paese nel fango più di quanto già non sia. Per dimostrare ancora una volta a tutti che tutto è uguale a tutto e che ogni storia deve essere indistinguibile da un’altra storia.
Per quello che riguarda il territorio in cui sempre con maggiore difficoltà io e tanti artisti ci muoviamo il mio sentimento è un sentimento di frustrazione e di rabbia, frustrazione perché sono stufo di fare e continuare a fare battaglie di retroguardia, di dovermi ritrovare in piazza per dover fare battaglie di presidio per difenderci dagli ennesimi tagli alla cultura.
Vedete, compagne e compagni – era tanto tempo che volevo dire questa cosa -, vedete questi tagli alla cultura sono i più odiosi, i più incommentabili tagli che siano mai stati mai fatti, ma sono l’ultimo anello di una lunghissima catena e su questo nessuno deve chiudere gli occhi.
Non posso più accontentarmi di pensare che la differenza tra un governo progressista, di sinistra, e un governo di centrodestra sia unicamente che il governo progressista fa meno tagli o cerca di non fare tagli, perché questo non è sufficiente.
Voglio che le istituzioni e la politica di questo Paese ritornino a mettere al centro delle parole d’ordine, ritornino a dire che la cultura e l’arte, come la scuola, la ricerca e la formazione, sono parte fondante del tessuto connettivo di questa società, di ogni società democratica.
Non bisogna avere paura di tornare a dire queste parole, pensando che siano parole vuote, perché sono parole piene, che pesano!
Vedete, è molto difficile la situazione in cui siamo perché un grande antropologo inglese che si chiamava Victor Turner molti anni fa ha fatto un’analisi dei fenomeni culturali in Occidente molto chiara e precisa: lui dice da molti secoli, forse dalla rivoluzione industriale, il tempo è stato spaccato in due: adesso esiste il tempo delle cose serie, che è produrre e consumare, e il tempo libero, e tutta l’arte la cultura sono sprofondati nel tempo libera. Ora purtroppo vedo anche la scuola, lo studio, la formazione e la ricerca scientifica.
Noi dobbiamo cercare di tornare a fare una grande battaglia per invertire questo sistema di cose, per tentare di comunicare a tante persone che non lo capiscono purtroppo più che l’arte e la cultura non sono tempo libero, che non si va a teatro, al cinema, all’opera, a vedere una mostra, quando si è finito di fare le cose serie, dopo una lunga giornata di lavoro in cui si produce e consuma, perché da tempo siamo trattati unicamente come un popolo di consumatori, si va nel tempo libero, a vedere uno spettacolino, un balletto, un filmetto, e tutto questo non potrà che essere declinato al diminutivo, ma questa non è la funzione dell’arte.
Allora c’è stato un momento in cui si è tentata una soluzione, si è tentato di dire «siamo nel tempo libero», cerchiamo di rientrare dalla porta secondaria, cerchiamo di dimostrare che l’arte e la cultura stanno sul mercato e quindi fanno parte delle cose serie. Allora, vedete, questo lo capisce anche un bambino di terza elementare che questo Paese potrebbe vivere investendo sulla cultura e sul proprio patrimonio artistico. Ma non è questo il punto. L’arte non sta nel mercato e questa non è la parola d’ordine.
Sta nel mercato nella natura delle cose, è naturale che chi amministra arte e cultura lo possa fare nella maniera migliore possibile, anche ricavare grossi proventi economici, ma non è questo il punto, perché il mercato coincide con l’intrattenimento e perché comunque sempre all’interno del mercato l’arte e la cultura saranno sempre le ultime delle industrie e quindi le prime a essere tagliate.
Concludo dicendo che mi aspetto tanto dal giorno in cui questo Paese tornerà a essere governato da persone un po’ più illuminate e più serie di quelle che abbiamo di fronte in questi giorni.
Mi aspetto tanto e non voglio più che queste speranze vengano tradite. Grazie.

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