Ne avevo letto nel bellissimo La storia delle api di Maja Lunde. Avevo riflettuto sul manifesto dei Verdi bavaresi, che diceva: Anche le api sono il popolo. Con mia figlia mi sono appassionato alle api, tra cartoni, documentari, libretti.

Solo ieri, però, le ho viste da vicino. Con lei e i sapienti apicoltori Lucio, Manlio e Enrico, nei pressi di Reggio Emilia, abbiamo fatto visita alle arnie, in una stagione funestata dal tempo strano, con il caldo di marzo e il freddo delle ultime settimane che ha scombussolato la vita alle api. Come se non bastasse l’inquinamento, i pesticidi, la cementificazione e quello che tutti sappiamo ma facciamo finta di non sapere e di non vedere, perché lo spettacolo deve continuare. E lo spettacolo, invece, se andiamo avanti così, si interromperà bruscamente. Show down.

Le api siamo noi, potremmo dire, perché senza di loro saremmo nei guai. E prendersi cura di loro significa prendersi cura degli uomini, senza alcuna soluzione di continuità. Oggi, infatti, è la giornata mondiale delle api e chi la promuove ci ricorda che salvare le api significa evitare carestie, evitare che milioni di persone rimangano senza cibo.

Non è una questione romantica, è una questione scientifica. Non è un calcolo ecologista, è un calcolo umano.

In una finestra temporale brevissima senza precipitazioni – mentre tutto intorno pioveva a dirotto – siamo riusciti a vederle, le api. Migliaia. Che comunque erano al lavoro, nonostante il tempaccio. Nina ha visto il miele (e lo ha assaggiato), ha individuato due apine con il polline (perché è questo, il punto, il polline). ha trovato l’ape regina, e insomma abbiamo vissuto quello a cui non siamo più abituati. «Quest’anno abbiamo saltato l’acacia», mi dicevano intanto, «speriamo in altre fioriture». Il settore è messo a dura prova, da molti punti di vista. Ma per i miei interlocutori il problema non è solo di «resa» economica, ma di preoccupazione sincera per ciò che accade al clima e quindi a noi.

Ero con Nina, che nel 2030 – il termine indicato da Greta, seguendo l’IPCC, come punto e momento di non ritorno – avrà 18 anni. E allora mi è venuta in mente una lettura di tanto tempo fa, il mito di Prometeo (e di Epimeteo, quello del «senno del poi»). Che c’entra anche meteo, peraltro. E non solo per un banale gioco di parole (l’etimologia non è corretta, ma suggestiva: chi prevede il “tempo”, e chi se ne accorge dopo). Ma perché è strettamente collegata, la questione, alla sopravvivenza del genere umano.

Scrive Platone nel Protagora, dopo aver introdotto Prometeo e Epimeteo:

Ma, una volta che si erano uniti, si facevano torti l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora, temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia.

La politica. Giustizia e rispetto, tra gli uomini e, aggiungiamo, tra le generazioni. Nina era lì con me, ieri, del resto. Con persone più anziane di lei, che le spiegavano le api e minimi rudimenti di apicoltura.

Ecco, insegniamo alle persone le api. Per farlo, ci vuole la politica. Che mancava a Epimeteo, il non accorto, e anche a Prometeo, che aveva procurato la tecnologia.

Perché è incredibile che non si comprenda come tutto sia collegato, il clima, le api, noi. E come ci vorrebbe la politica, quella che non c’è più, non quella del finto cambiamento, quella che sappia affrontare un grande cambiamento con la stessa forza e la stessa potenza che i cambiamenti climatici stanno imponendo al genere umano.

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