La retorica del «da papà dico che» di cui il ministro dell’inferno abusa, mentre muoiono molti figli in mare aperto e molti altri sono costretti ad assistere alle violenze inaudite perpetrate nei confronti dei loro genitori, seviziati, violentati e schiavizzati in Libia, mi ha portato a rileggere il manifesto di Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, che La nave di Teseo ha pubblicato di nuovo, a vent’anni dalla prima edizione, e a ripensare a ciò che spesso racconta Liliana Segre.

Nella prefazione alla nuova edizione Ben Jelloun scrive: «non solo il razzismo non è scomparso, ma si è sviluppato a causa della sua banalizzazione, accompagnata da una legittimazione delle sue espressioni pubbliche». «La leva della paura», conferma Ben Jelloun, «funziona molto bene». Ovviamente ciò vale per la nostra, di paura, non per la ‘loro’: la loro angoscia, il loro terrore non ci interessa, non importa, non rileva.

Segre racconta che quando fu deportata, in una città muta e silenziosa e insomma indifferente, dal Binario 21 della Stazione centrale di Milano – un binario sotterraneo, destinato al trasporto delle merci – oltre a vivere il proprio dramma, assistette a quello del padre, che non potè sottrarla al respingimento, alla detenzione e poi alla deportazione. Segre dice: «Non poteva far nulla più, perché quando ci siamo trovati su quel treno, era tutto perduto. Clandestini, sulla montagna. Respinti, una volta entrati in Svizzera. Per la colpa di essere nati. “Ti chiedo scusa per averti messa al mondo”, mi disse. Ho avuto la fortuna, nella disgrazia, di viverlo da figlia».

E quando il Presidente della Repubblica l’ha nominata senatrice a vita, Segre racconta che Mattarella le disse una cosa «come uno di famiglia, che trova la frase giusta, al momento giusto: “Quando ho firmato il decreto, ho pensato a suo papà”, l’idea che fossi nella situazione in cui ci siamo trovati io e lui, disperato padre di un’adorata figlia, il Presidente ha pensato a quello».

Quando parliamo di padri e figli, non dimentichiamo queste parole. Non dimentichiamo che ci sono padri disperati per i loro piccoli. Impotenti di fronte alla disumanità. Atterriti da una responsabilità a cui temono di non riuscire a corrispondere, per salvare i loro bambini.

Abbiamo cura dei bambini e delle parole che usiamo, prima che sia tutto irreparabile. Per molti padri, già lo è. E per molti figli sarà impossibile dimenticarlo.

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