La cosa più clamorosa, coperta dallo zang tumb tumb della propaganda di governo e accompagnata dal (religioso?) silenzio dell’opposizione, è che il lavoro del Parlamento europeo, che si è occupato per un’intera legislatura della riforma del regolamento di Dublino, sia stato banalmente accantonato dai leader nazionali.

Quel lavoro, Elly Schlein giustamente lo ricorda ogni volta che può, è approdato al voto finale ed è stato salutato da una larghissima maggioranza, di cui non hanno fatto parte le attuali forze di governo, con il voto contrario del M5s che ha addirittura superato l’astensione della Lega.

Però, al di là della questione politicamente immensa, è la questione democratica a colpire, anche se nessuno sembra darle alcun peso. Perché noi eleggiamo ogni cinque anni decine di europarlamentari (che diventano centinaia, da ogni paese), che stanno ogni settimana – chi più chi meno – tra Bruxelles e Strasburgo, e dovrebbero rappresentare le famiglie, le correnti e le sensibilità della politica europea, finalmente a confronto tra loro.

Sappiamo che l’architettura delle istituzioni europee non è ispirata alla normale dialettica tra Parlamento e Governo, ma ci sono parecchi «ma» che dovrebbero entrare in gioco, se qualcuno ha davvero a cuore la politica europea. E invece nessuno – nessuno – intende rilevarlo. Perché tutti i leader ricominciano daccapo, pensando a se stessi e al proprio paese, mentre dovrebbero ispirarsi, se non proprio conformarsi, a ciò che hanno discusso, valutato e votato i propri rappresentanti eletti. Anche i leader europeisti, che fanno della bandiera europea il proprio vessillo politico-culturale. I sovranisti, nel loro cantuccio, non fanno che aggravare la situazione, incontrando presto il sovranismo degli altri. Asseragliati a Visegrád, risentiti verso le grandi capitali, bloccano qualsiasi evoluzione. E così tutto torna ad apparire nazionalistico, secondo uno schema che in Italia conosciamo benissimo, e che si riferisce addirittura al primo discorso di Mussolini, alla Camera, manifesto dell’antiparlamentarismo che di solito confiniamo alle vicende nazionali, ma che riletta oggi proietta ombre nefaste anche sulle istituzioni europee che sarebbero venute dopo la seconda guerra mondiale:

Noi ammettiamo che ci sia una specie di unità, o meglio, di interdipendenza della vita economica europea. Ammettiamo che si debba riedificare questa economia, ma escludiamo che i metodi sin qui adottati giovino allo scopo.

Valgono più, ai fini della ricostruzione economica europea, i trattati di commercio a due, base delle più vaste relazioni economiche fra i popoli, che le macchinose e confuse conferenze plenarie, la cui lacrimevole istoria ognuno conosce. Per ciò che riguarda precisamente l’Italia noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale (Vive approvazioni a destra).

Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des. (Vive approvazioni).

I parlamentari lavorano, si confrontano in lunghi dibattiti, producono riforme che poi arrivano a votare, ma è come se fosse un campo di allenamento, perché tutti sanno che la partita è un’altra, che non ha alcun legame con quella che hanno giocato i rappresentanti eletti dal popolo. Un parlamento che non è un bivacco di manipoli, ma una istituzione che ha la stessa incidenza di un gigantesco talk show sulle questioni più rilevanti che riguardano la nostra vita.

Le responsabilità sono di tutti, in questo senso, e non c’entra il populismo, che semmai esaspera una realtà che altri non hanno voluto cambiare e alla quale reagisce, peggiorando la situazione e senza incontrare una prospettiva politica più alta e lungimirante sulla propria strada, la sola che potrebbe sconfiggerlo.

L’aula che è un po’ grigia, non è sorda, però: quelli che fanno finta di non sentire sono altri. E colpisce la scomparsa dal dibattito delle «internazionali» e dei partiti politici europei, che si rimettono ai loro governi, senza colpo ferire.

Se non cambierà questa impostazione, a cento anni da quel 1918 che avrebbe già dovuto insegnare qualcosa, l’Europa non risolverà mai le questioni politiche che l’attraversano e da qualche tempo la dilaniano. Forse di questo dovremmo parlare, al di là delle stentoree dichiarazioni di questo o di quel leader politico, che lasciano il tempo che trovano. Un tempo parecchio nuvoloso. E le nuvole sono nere da un bel po’.

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