All’interno di una rocambolesca discussione su Twitter, un commentatore mi faceva notare che è sbagliato chiamare «lager» i campi di concentramento libici, perché i «lager» erano quelli nazisti e quel genocidio appartiene a una determinata epoca storica. Il commentatore ha insieme ragione e torto e cercherò, brevemente, di spiegare perché.

Ha ragione perché bisogna essere precisi e non confondere pratiche di sopraffazione, di violenza indiscriminata e di sterminio che non sono sovrapponibili, perché rispondono a logiche e a strategie di diversa concezione. Non è necessario farlo e se si può è meglio evitare. Ma ha torto se ciò significa minimizzare ciò che sta accadendo in Libia. Perché ciò che sta accadendo non è un «lager», ma non è nemmeno un carcere, in brutte condizioni, diciamo così, né un centro d’accoglienza con custodi troppo maneschi.

A questo proposito, grande merito va a due giornalisti di Repubblica, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, che hanno raccolto le testimonianze di molte persone che hanno trascorso mesi e anni in quei luoghi infernali in un volume recentemente pubblicato da Chiarelettere: Non lasciamoli soli. Storie e testimonianze dall’inferno della Libia. Quello che l’Italia e l’Europa non vogliono ammettere.

Questi campi di concentramento libici non sono «lager», ma sono luoghi dove le persone sono private della loro libertà senza alcuna ragione se non la loro condizione di migranti (con particolare accanimento verso i neri dell’Africa subsahariana), dove si concentrano migliaia di vite, ridotte a oggetti, dove si pratica lo stupro sistematico, la tortura, il ricatto, la schiavitù (e allora qualcuno potrebbe dire che questa schiavitù non è come quella dei negrieri dei secoli passati, ma è comunque schiavitù e i negrieri fanno un lavoro molto simile a quello di allora). Dove i prigionieri sono dannati e in alcuni casi diventano «kapò», che non sono gli stessi di Auschwitz, ma svolgono una funzione analoga. Non è un «lager» perché quello fu un fenomeno europeo, dentro i nostri confini, ma segnalo che i centri libici sono ai nostri confini: di più, rappresentano il nostro confine, secondo buona parte della politica italiana ed europea. Che si è preoccupata più di finanziare e sostenere il confine che di salvare le persone devastate da questa immane violenza. Che non si è adoperata, per le stesse ragioni, per evacuare queste strutture. E che trova complicato addirittura parlare di questa vergogna mondiale.

Oggi come allora molti fanno finta di non sapere e viene in mente Jan Karski e la sua «testimonianza davanti al mondo», inascoltata e lasciata cadere da molte cancellerie occidentali. Karski ricevette questa raccomandazione da chi si sentiva perduto:

«Faccia in modo che questa responsabilità ricada sugli Alleati. Faccia in modo che non un solo rappresentante delle Nazioni Unite possa affermare di non aver saputo che in Polonia ci stavano uccidendo sistematicamente e che per noi l’unico aiuto poteva venire dall’esterno».

Oggi apprendiamo che l’Onu ha messo sotto accusa sei trafficanti che operano in Libia, uno dei quali è comandante della Guardia costiera libica, sostenuta e finanziata dall’Italia e dall’Europa, per fermare il traffico dei migranti. Avvenire titola: Italia «vicetrafficante», rovesciando l’indegno attacco di Salvini alle Ong, e sottolineando le nostre enormi responsabilità. Chissà se un giorno chi ha organizzato tutto questo, a livello italiano e europeo, non sarà chiamato a risponderne personalmente, di fronte alla giustizia internazionale.

Nel frattempo noi sapevamo e non abbiamo fatto nulla per fermare questo scempio. Eppure celebriamo la nostra memoria, eppure condanniamo la violenza.

Ci sentiamo assolti, ma siamo pienamente coinvolti.

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