La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead è un grande libro.

L’idea da cui muove è semplicissima e geniale: trasformare la rete di contatti, nascondigli e itinerari che fu organizzata per la fuga degli schiavi verso Nord dagli abolizionisti nelll’Ottocento in una vera e propria linea ferroviaria, con i convogli, le stazioni e i binari. Un tunnel segreto, ramificato e infinito sotto l’America schiavista, permeata di un razzismo e di una violenza che purtroppo hanno avuto fortuna fino a tempi molto più recenti.

Il libro è una fuga che è una corsa verso la libertà, quella grandiosa «illusione» di cui si parla nelle sue pagine finali, che sarebbe un crimine anticipare qui: una fuga che non conosce tregua né pare compiersi mai perché i fuggitivi sono inseguiti dai «professionisti» assoldati da chi, in ragione di una legge del 1850, vuole riconsegnarli con la forza ai loro legittimi (!) proprietari, riportandoli alle piantagioni da cui sono scappati nottetempo.

Cora è la protagonista leggendaria, la «Marianna» di questa epopea, in un libro uscito nel passaggio da Obama a Trump, mentre Lincoln è nel Bardo, peraltro, come vuole il capolavoro di Saunders.

Cora scappa, come già sua madre, che l’aveva abbandonata nella piantagione per fuggire lontano: una fuga che muove dal ricordo e dalla rabbia per poi riempirsi di nuovi significati e di nuove emozioni a ogni tappa, anzi, a ogni «stazione». E ogni convoglio porta con sé la denuncia politica, il thriller, la scrittura formidabile e una lettura insomma appassionata, con il cuore in gola, dalla prima all’ultima pagina.

Il romanzo di Whitehead è una grande storia leggendaria, che ci invita a tenere quella ferrovia sempre in funzione. Per portarci fuori dalle discriminazioni e dalla violenza, dalla schiavitù dell’ignoranza e del pregiudizio, verso quella grande illusone di una società di liberi e uguali a cui dovremmo mirare tutti. E non smettere mai di inseguirla.

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